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Tra Stato e mercato, per il bene comune

Il titolo VI del Codice di Camaldoli, dedicato all’attività economica pubblica, presenta un coerente e articolato sistema di principi relativi ai rapporti tra Stato, società e mercato.
Alla stesura di questa parte del Codice collaborarono attivamente Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno e Ezio Vanoni. A parte il primo, prematuramente scomparso, gli altri due studiosi testimonieranno fattivamente all’interno delle istituzioni la loro piena adesione ai principi delineati in quella sede.
Anche quando gli estensori del Codice assumeranno ruoli di grande rilievo, li vedremo agire in conformità ai canoni di un’economia sana (bilancio pubblico in tendenziale pareggio, lotta all’inflazione, stabilità monetaria, tutela del risparmio), che si deve dotare di un sistema fiscale rigoroso (ma nella convinzione dell’importanza della consapevolezza del contribuente, e con l’idea di una politica fiscale utilizzabile anche come mezzo di redistribuzione della ricchezza). C’è però spazio per l’elaborazione del Programma decennale di sviluppo e per la promozione dell’impresa pubblica, misure che ben rappresentano l’idea di intervento pubblico nell’economia elaborata nel Codice.
 
Nel testo il mercato certo rimane il fondamento dell’organizzazione economica, ma si ritiene che lo stesso vada adeguatamente corretto. Su questa base nasce la soluzione dell’“economia mista”. Ragionare sulla collaborazione tra Stato e mercato significa, per questi economisti, far emergere la compatibilità possibile tra efficienza ed equità: le politiche economiche devono essere improntate al lungo periodo e l’intervento dello Stato deve correggere le distorsioni del mercato per conseguire obiettivi di equità, senza pregiudicare il meccanismo del mercato, garante di efficacia e efficienza.
 
Nell’articolo 87 del Codice, che si dice sia stato particolarmente curato dagli “economisti” di Camaldoli leggiamo: “… l’attività economica pubblica va sempre indirizzata secondo una visione unitaria, la quale deve ispirarsi al fine ultimo di ogni pubblica azione, che consiste nel creare le condizioni più favorevoli di vita sociale per un pieno sviluppo delle energie degli individui e dei gruppi”.
A monte di ciò sta la questione cruciale del rapporto tra eticità dei fini e scelta dei mezzi in economia. In tale ambito la giustizia sociale viene assunta quale criterio regolatore dei rapporti dell’uomo con la società e della società con i singoli individui. Le declinazioni di tale principio si precisano nei contenuti quando si passa sul terreno dell’azione politica. La sua attuazione implica infatti che siano eliminate le posizioni di strapotere economico; che tutti i fattori della produzione ricevano un compenso equo; che sia assicurata la continuità e la stabilità dell’occupazione.
 
Si tratta di rendere effettiva quell’eguaglianza di possibilità che richiede la rimozione degli ostacoli nelle posizioni di partenza, e che diventa impegno nell’evitare le manovre economiche che possano accrescere lo squilibrio tra le classi sociali.
La necessaria connessione tra Stato e mercato trova, sempre nel Codice, un proprio forte criterio ispiratore nel principio di sussidiarietà.
Gli articoli 11 e 76 segnano una linea precisa. Si legge nell’articolo 11: “Poiché la vera ricchezza e la sola forza della società sono nelle energie degli individui, l’interesse massimo della società è di fare che tutte queste energie siano portate al massimo sviluppo di cui sono capaci e impedire che rimangano non svolte e puramente potenziali, per modo che ciascuno eserciti le sue facoltà individuali e sociali ora dando e ora ricevendo per il bene suo e quello degli altri. A questo fine deve cooperare tutta la vita sociale e, quindi, anche lo Stato che ne fa parte”.
 
Sul modo di conciliare gli interessi dei singoli con quelli della comunità è chiaro quanto delineato nell’articolo 76 del Codice, dove si precisa che il legittimo intervento dell’autorità può svolgersi sia escludendo dalla proprietà privata alcune categorie di beni, sia limitando l’esercizio del diritto di proprietà. Sempre nell’articolo 76 si evidenzia il ruolo dell’impresa pubblica: “L’intervento della comunità nell’attività produttiva può altresì aversi quando l’iniziativa privata si mostri manchevole o insufficiente a soddisfare determinati interessi collettivi. Tale intervento potrà svolgersi, a seconda dei singoli casi, sia agevolando l’iniziativa privata, sia associandosi a essa con forme di proprietà mista, sia infine mediante la gestione diretta di beni strumentali posti nell’ambito della proprietà collettiva”.
L’interpretazione del principio di sussidiarietà qui proposta è inequivocabile: lo Stato non deve limitarsi a non ostacolare l’iniziativa privata, ma è chiamato anche ad una azione positiva, di stimolo nei confronti dell’iniziativa di singoli e gruppi sociali.
 
L’intervento dello Stato è visto come integrativo e, in qualche caso, suppletivo dell’attività dei privati. Se la scelta tra le diverse possibili forme di organizzazione della proprietà pubblica è fatta dipendere dalle situazioni storiche specifiche, sono invece ben definite le regole a cui non può sottrarsi la gestione del patrimonio pubblico per mantenere la propria legittimità.
L’articolo 90 del Codice fa riferimento esplicito alla necessità di ottenere il massimo rendimento “non potendosi giustificare eventuali inefficienze insite nell’esercizio pubblico con i vantaggi che attraverso tale esercizio si vogliono conseguire”; precisa altresì che le forme di organizzazione devono essere improntate alla possibilità “di ridurre agevolmente l’estensione della proprietà dell’ente pubblico non appena questa non interessi più l’azione che esso deve svolgere”.
Questi principi, la cui eco è evidente nel dettato della Costituzione repubblicana, rimangono un punto di riferimento rilevantissimo per tutti gli economisti che intendono porre la loro scienza al servizio pieno del bene comune.
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