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L’America. Dieci anni dopo

Il giorno in cui, parlando alla nazione davanti alle telecamere di tutto il mondo, il presidente Barack Obama ha annunciato la morte di bin Laden, l’America ha tirato un sospiro di sollievo. Nulla di più però. Perché purtroppo, a dieci anni dai drammatici attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono, l’incubo del terrorismo non è finito.
 
L’inquilino della Casa Bianca ha imparato dagli errori del suo predecessore, che dal ponte della portaerei Lincoln, nel 2003 dichiarò “accomplished” la missione militare in Iraq. Saddam Hussein sarebbe stato catturato qualche mese dopo ma, venuti meno i precari equilibri che tenevano assieme la difficile convivenza religiosa, a Baghdad e dintorni la guerra iniziava allora e di fatto deve ancora terminare. Pur mettendo in naftalina l’espressione Global war on terror (Gwot), Obama con maggior prudenza ha annunciato che la caccia ai terroristi continuerà fino a quando non saranno smantellati tutti i santuari di al Qaeda e del suo franchising.
 
L’uccisione di bin Laden nel suo compound della cittadina pachistana di Abbottabad chiude una fase e ne apre una nuova. Oggi gli americani non devono più convivere con la barra colorata dell’alert, che Bush volle non solo per stimolare il controllo sociale verso i pericoli del terrorista fai da te, ma anche per mobilitare attenzione e risorse verso l’unico obiettivo strategico del suo mandato: la guerra al terrore. Quell’allarme che campeggiava sui teleschermi dei principali network televisivi ad ogni ora era anche l’indicatore di uno stato psicologico della nazione.
 
L’entusiasmo per la morte del principe del terrore è durato molto poco. Le scene di giubilo a Times square si sono presto dissolte per il peso di nuove sfide che attendono questa Amministrazione e, più in generale, il Paese. Obama non si guadagnerà la rielezione nel 2012 per aver ucciso bin Laden ma solo se saprà dare risposte certe ed efficaci alla crisi economica che sta spazzando via quell’ottimismo messianico che ha visto l’America non solo affermarsi come prima potenza del globo ma anche come volenteroso architetto dei destini del pianeta. La valutazione dei progressi compiuti anche nella lotta al terrorismo si incrocia con questo stato d’animo. Che cos’era l’America il 10 settembre 2001 e cosa è oggi?
Essa rimane, allora come oggi, l’unica iper-potenza globale, dotata dell’apparato strategico-militare più formidabile e di un vantaggio tecnologico senza pari. Ma, rispetto a dieci anni fa, l’America è molto più indebitata e non può che vedersi costretta a ridimensionare le proprie ambizioni globali e le proprie opzioni strategiche. Fare la guerra costa parecchio. Le operazioni di lotta al terrorismo su vasta scala hanno sottratto quasi 1.300 miliardi di dollari in dieci anni alle casse federali. A questi vanno aggiunte le spese per le missioni in Iraq (500 miliardi di dollari) e Afghanistan (38 miliardi di dollari). Questo spiega il perché Washington abbia deciso di sottrarsi ad un impegno diretto e continuativo nella missione in Libia, costata già 1 miliardo di dollari, oltre ad una valutazione prioritaria dei propri obiettivi.
 
Per comprendere la portata della sfida posta dalla crisi economica basta leggere il rapporto che il Direttore dell’Intelligence illustra al Congresso ogni anno: tra il 2001 e il 2008 al primo posto tra le minacce alla sicurezza Usa figuravano sempre e comunque il terrorismo, bin Laden e la rete di al-Qaeda. Dal 2008 la principale minaccia è diventata la crisi economica, che erode la capacità Usa di essere sulla frontiera dell’innovazione e contribuisce ad affossare quei regimi fragili o instabili in giro per il mondo che possono diventare il rifugio per terroristi e trafficanti di ogni tipo.
Una delle cause principali del debito Usa è proprio la sovraesposizione militare. L’America si sente più fragile e ha bisogno di diventare più frugale. Per il presidente e per gli americani la morte di bin Laden ha soprattutto un valore simbolico. Il nodo principale rimane quello di conciliare la sicurezza del Paese con i costi della stessa. Gli elettori pretendono risposte e assistono al preoccupante spettacolo di un Congresso che ha abdicato allo spirito del “right or wrong, it’s my country” e che vuole mettere alle strette la Casa Bianca proprio sui tagli al bilancio.
Perché l’opera iniziata da Obama si concluda – nel 2012 o nel 2016 – con successo è necessario dare almeno la percezione che la guerra al terrore stia per essere conclusa e che presto ci si concentrerà solo sui temi che più stanno a cuore agli elettori: l’economia, l’occupazione, i salari.
 
Se letti sotto quest’ottica i segnali di scomposizione dell’architettura classica della sicurezza si possono cogliere con più chiarezza. È un tema che riguarda profondamente anche noi europei, indebitati quanto gli americani ma con il limite di non aver mai sviluppato una dimensione autonoma di sicurezza e difesa. L’allarme lanciato dall’ex segretario alla Difesa Gates in più circostanze è reale: in America c’è oggi una generazione di politici che non ha vissuto la Guerra fredda e che sarà più difficile da convincere sull’utilità di strumenti come la Nato se non ci saranno risultati concreti nella cooperazione transatlantica. Ciò vale, evidentemente, anche per l’opinione pubblica. La guerra in Libia lo dimostra con chiarezza: a Washington ci si aspetta che gli europei sappiano quanto meno mettere ordine nel cortile di casa.
 
Possiamo anche rallegrarci, da questa sponda dell’Atlantico, del ritiro delle truppe dall’Afghanistan, che lo stesso Obama sta accelerando. Ma non possiamo illuderci che in futuro l’America giunga in soccorso anche della nostra sicurezza. Non lo consentiranno gli elettori di un Paese profondamente scosso dalla crisi economica e che dovrà innanzitutto far quadrare i conti. Magari scaricando una parte del debito sul resto del mondo, premiando quegli “amici e alleati” che si dimostreranno in grado di assecondare il progetto di un nuovo ordine mondiale e marginalizzando coloro che non avranno colto la novità epocale di questo cambiamento. A noi l’onere della scelta. L’America sta cambiando. Saprà farlo anche l’Europa?
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