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Lo scenario è cambiato

Dieci anni dopo la tragedia dell’11 settembre il mondo stenta ancora a trovare la sua stabilità. L’America forse è più sicura. bin Laden è stato ucciso, ma, come dimostrato dal fallito attentato di Time square, il rischio di subire un altro attacco sul proprio territorio c’è ed è sempre forte. L’America resta pertanto in guerra, esattamente come dieci anni fa.
 
Resta in guerra soprattutto in Afghanistan, dove la situazione della sicurezza continua ad essere critica. La scelta dell’amministrazione Obama di iniziare il ritiro delle forze americane non contribuisce certo a migliorare il quadro. La decisione arriva infatti in un momento fondamentale nella storia recente del Paese. Grazie al surge voluto dal generale Petraeus, la coalizione a guida Usa ha ottenuto significativi progressi nell’ultimo anno, ma questi progressi, come più volte sottolineato dallo stesso generale adesso passato a dirigere la Cia, sono reversibili e rischiano di essere mandati in fumo da un’uscita dal Paese calibrata su una agenda che guarda alle prossime presidenziali più che alla reale situazione sul campo.
 
I talebani, e i loro alleati, costituiscono tuttora una minaccia seria per le forze di Isaf, soprattutto in alcune aree del Paese. Adesso, dopo le grandi offensive lanciate da anglo-americani e afghani nell’ultimo biennio nelle province di Hellmand e Kandahar, che hanno consentito di disarticolare buona parte della struttura della guerriglia, la situazione più critica è nell’est del Paese, in quelle province di Nuristan e Kunar, ormai controllate completamente dai gruppi legati all’insurrezione. In generale, in tutto il Paese ci sono aree dove le forze di Isaf non sono presenti e che, di fatto, costituiscono dei santuari in cui gli insorti possono andare a raggrupparsi e a stabilire nuove basi logistiche. L’uccisione di bin Laden non sembra aver avuto grande influenza sull’insurrezione afghana, anche in considerazione del suo forte radicamento etno-tribale nel turbolento universo pashtun transfrontaliero.
 
L’evento, semmai, ha avuto un forte impatto sulle già travagliate relazioni tra Washington e Islamabad. Lo Sceicco del Terrore, infatti, lungi dall’essere rintanato in qualche insalubre tugurio nelle aree tribali pachistane, aveva da anni trovato confortevole rifugio in una cittadina, Abbotabad, a poche centinaia di metri dalla prestigiosa Pakistan military academy, principale accademia dell’esercito pachistano ed equivalente della nostra Accademia di Modena. Solo questo basterebbe per gettare pesanti sospetti sulle complicità con bin Laden di segmenti dell’Isi (Servizi segreti), i veri padroni del Pakistan e i “padrini” di un gioco sporco dove il controllo di alcuni gruppi radicali afghani e pachistani è funzionale alla politica di profondità strategica nel confronto con l’India.
 
Secondo alcuni autorevoli rapporti, negli ultimi mesi il leader di al Qaeda avrebbe sfruttato la posizione del compound per incontrare alti esponenti della militanza radicale attivi in Afghanistan come l’Hezb-e-Islami di Hekmatyar e l’Haqqani Network. Se questo fosse vero, sarebbe ancor più difficile per l’Isi sostenere di essere completamente ignara della sua presenza: non solo si nascondeva sotto il loro naso, ma avrebbe persino goduto di una libertà di movimento tale che un latitante del suo calibro può solo avere se assolutamente certo di essere protetto.
Dopo un decennio passato ad ascoltare le seccate reazioni dei pachistani ad ogni minima indicazione occidentale che Osama bin Laden o al Zawahiri (e se è per questo anche il Mullah Omar) si potessero trovare nel Paese, oggi, con lo sceicco morto nella cittadella simbolo del privilegio di cui godono gli uomini in divisa in Pakistan, il velo dell’ambiguità di Islamabad è stato definitivamente sollevato. E i rapporti tra Usa e Pakistan sono entrati in una fase di revisione, sotto la spinta di un Congresso americano sempre più deciso a voltare le spalle al vecchio guardiano dell’ordine americano in Asia meridionale.
 
Allargando il discorso anche ad altri scenari, l’uccisione di bin Laden è giunta nel bel mezzo delle rivolte arabe. La primavera di Nordafrica e Medio Oriente è stato il vero grande evento del mondo post-11 settembre, l’evento in grado di cambiare assetti politici e istituzionali che molti ritenevano immutabili. Si è trattato di una vera e propria presa di coscienza popolare, veicolata dalle immagini televisive e dai messaggi che da una parte all’altra della regione sono rimbalzati via Internet, attraverso blog e social network, e via telefonino cellulare, che man mano si è trasformata in un moto travolgente. Seppur tra mille differenze, in tutti questi Paesi, dalla Tunisia, all’Egitto ecc., le proteste sono nate dalle fasce di popolazione più giovane e da quelle più istruite ed hanno avuto in comune la richiesta di riforme, diritti e democrazia.
 
In tutto questo processo, il ruolo di al Qaeda è stato del tutto marginale. Anzi, l’organizzazione sembra essere stata presa di sorpresa dalla rapidità degli eventi e dalle loro immediate conseguenze. Tanto che per al Qaeda, alla fine, l’esito delle rivolte è risultato una sonora sconfitta. E non potrebbe essere altrimenti per un’organizzazione settaria e d’avanguardia che ha sempre cercato di rovesciare i regimi laici e secolari del Medio Oriente, a cominciare da quello egiziano, con la violenza e il terrorismo. Il grande nemico americano, dunque, a dieci anni dalla “vittoria” dell’11 settembre, sembra aver perso appeal e iniziativa e sempre di più si sta segmentando in tanti terminali regionali più o meno forti e attivi, e legati a specifiche realtà locali. L’uccisione di bin Laden probabilmente ha contribuito ad accelerare questo processo di regionalizzazione di al Qaeda e gli americani, con l’uscita dall’Afghanistan, sembrano quasi averne preso atto. A dieci anni dal crollo delle Torri Gemelle, forse si sentono più sicuri e si preparano ad affrontare un nemico, che ancora c’è ed è attivo, in modo diverso. Non più una risposta globale di sapore idealista e reaganiano, come negli anni immediatamente successivi all’11 settembre, ma una risposta più pragmatica e calcolata volta per volta in base a dinamiche locali. Una sorta di riflusso, segnato anche da altri, e adesso più urgenti, problemi sul fronte interno. A cominciare dall’enorme deficit federale.
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