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L’ora della riconciliazione

Un istruttore di guida raccomandava: «Davanti a un tamponamento per prima cosa cerca una via d’uscita. Dove guardi lì finisci. Se fissi le macchine accartocciate, le investirai. Oppure, riuscendo a frenare di colpo, sarai tamponato da chi viene dietro. Se invece guardi una via di fuga, allora sarai capace di accelerare e sterzare, salvare te stesso e chi segue». È riduttivo il dilemma: tamponare o essere tamponato, far torto o subirlo.
Il massacro jihadista dell’11 settembre 2001 ha prodotto incidenti a catena. Si è iniziata una guerra in Afghanistan, e poi una azzardata in Iraq. La marcia pacifica di milioni di cittadini occidentali, il 15 febbraio 2003, non ha spalancato gli occhi sulle conseguenze e i costi dell’uso della forza e della ricostruzione. Però quest’estate, per i militari statunitensi, si è conclusa l’exit strategy dall’Iraq ed è iniziata in Afghanistan. Si guarda, nonostante tutto, nella direzione di una pace stabile perché fondata sul rispetto della dignità umana?
 
Al Qaeda ha provocato gli Stati Uniti e “ha tentato Dio”. La religione è stata mistificata per giustificare la violenza e iniziare una “guerra infinita”. Ma la fede religiosa non assicura successi umani. Crederlo è acconsentire alla terza tentazione di Gesù nel deserto (Luca 4,9-12). È stata pure rielaborata la teoria della guerra giusta. Anche il Nobel per la pace 2009, Barack Obama, ne disquisì ritirando il premio. Ma uno dei criteri dirimenti di questa logica è se si punta (prima, durante e dopo l’uso della forza) a una soluzione realmente pacificatrice. Questo è il cuore puro dei “beati operatori di pace”. Tutti vincono «perché saranno chiamati figli Dio» e «lo vedranno» (Matteo 5,8-9). Anche i peccatori pentiti, i nemici che si vogliono come alleati futuri. La “guerra santa cristiana” è il combattimento spirituale della lettera agli Efesini (6,13ss): «Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace». Da qui si può sempre ripartire.
 
Il contesto è cambiato in dieci anni: il deficit e il debito pubblico statunitensi sono alle stelle. La guerra al terrore è finora costata agli Usa dai 3.700 ai 4.400 miliardi di dollari (e poi ci sarà la Libia): risorse tolte allo sviluppo e all’occupazione. Poi, globalmente, ci sono stati per lo meno 225mila morti, in gran parte civili da difendere; e i mutilati, i traumatizzati psichici, gli orfani e le persone vedove, le centinaia di migliaia di cristiani iracheni profughi, chi ha perso il lavoro, i danni materiali.
Ma probabilmente la Grande recessione e la “stanchezza militare” degli Usa hanno favorito le primavere arabe. I giovani musulmani nelle piazze contestato i loro governi dispotici e aspirano a una politica estera e di difesa non vassalla dell’occidente, ma hanno ripudiato la logica qaedista. Barack Obama sembra un volto nuovo e riconciliante per le masse musulmane; mentre per l’occidente al posto di bin Laden, in fondo al mare dal 2 maggio, Shahbaz Bhatti, ministro pakistano delle minoranze religiose, massacrato due mesi prima, sarebbe la migliore icona per il prossimo futuro.
 
Se il XXI secolo sarà ancora americano dipende dalla credibilità degli Usa agli sguardi del mondo, dal loro impegno per il dialogo tra popoli, culture e religioni. Per gli Stati Uniti è normativo cooperare per la pace in Terra Santa, per la diffusione di regimi democratici “profondi”, per un lavoro dignitoso a decine di milioni di giovani nord africani e medio-orientali. Hanno accolto questa triplice sfida il 19 maggio 2011 con il discorso del loro presidente al dipartimento di Stato. Poi assunto dal G8 di Deuville la settimana successiva. Ma ad Obama e al G8 sono mancate le parole di scuse per il passato.
Queste avrebbero segnalato una nuova e decisa posizione di non sostegno ai regimi autoritari. Le scuse storicamente fondate e ben poste possono aiutare gli Stati Uniti e l’occidente a riconciliarsi con una grande parte dei popoli musulmani, riconoscendo quanta sofferenza hanno patito e stanno vivendo per le conseguenze, più o meno previste, delle politiche statunitensi ed europee. Serve pure a smontare il sospetto che gli Stati Uniti e i loro alleati facciano il doppio gioco con gli arabi, cioè puntando alla propria sicurezza sono una minaccia per la loro.
 
Le emozioni negative di risentimento, invidia, sospetto sono mine da disinnescare sul cammino della pace. Le religioni insegnano percorsi di riconciliazione, e sono parte della soluzione dei problemi di sicurezza nazionale e globale. Come ha affermato l’ambasciatore statunitense Richard C. Holbrooke, scomparso quest’anno, «se siete interessati alla pace nel XXI secolo, non potete ignorare la religione […]. Focalizzare l’attenzione sulla religione come un’istigatrice di conflitti è soltanto metà della storia e, piuttosto francamente, pericolosamente inaccurata».
Le scuse ufficiali in riferimento ai dieci anni di guerre potrebbero essere un suicidio politico. Ma è importante che prossimamente tutte le “vittime collaterali” siano ricordate a Ground Zero. Una qualche espressione di dolorosa e sincera “compunzione di cuore” può prevenire da un’insana e antipatica superbia e meglio aprire al futuro. Gli stessi torti subiti possono essere vissuti come occasione di “espiazione vicaria”, se agli altri portano frutti di giustizia e di pace. “Porgere l’altra guancia” significa (ri)calibrare lo sguardo sui processi di pace e rilanciarli incondizionatamente, anche chiedendo e accettando le scuse, riparando i guasti del passato, dimenticando i torti e perdonando. Nella città che ospita la sede delle Nazioni Unite, il decennale dell’11 settembre 2001 deve essere memoriale di riconciliazione per tutti.
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