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Pasticcio idroelettrico

E ci risiamo! Lo scorso mese di luglio, come largamente atteso, la Corte Costituzionale ha annullato per la seconda volta la norma nazionale volta a disciplinare il tema delle proroghe delle concessioni di grandi derivazioni idroelettriche. Di fatto le motivazioni sono le medesime: in entrambi i casi, non passando dalla Conferenza unificata Stato-Regioni, è stata violata la potestà concorrente delle Regioni. La prima volta era nel 2008, sentenza n.1/2008, relativa alle disposizioni sulle proroghe della l.266/2005; la seconda volta a luglio di quest’anno, sentenza n.205/2011, relativa alle disposizioni sulle proroghe della l.122/2010. Gli operatori del settore sono sempre più disorientati, almeno quelli le cui concessioni sono scadute nel dicembre 2010 (alcune decine) o scadono entro il 2015.
 
Di quale dimensione stiamo parlando? In Italia l’idroelettrico, esclusi gli impianti di pompaggio, con quasi 51 TWh, costituisce il 68% del totale produzione da fonti rinnovabili ed il 17% circa del totale produzione elettrica; i ricavi del settore sono di poco superiori ai 3 miliardi di euro.
I primi cinque operatori del settore hanno una quota di poco superiore al 76% e sono A2a, Cva, Edison, Enel e Eon (per A2a ed Edison si sono computate le quote di competenza di Edipower, il cui portafoglio di concessioni, in qualità di ex-Genco, scade nel 2029). Enel da sola ha il 51% e ha le concessioni in scadenza al 2029. Parliamo quindi di una produzione sensibilmente rilevante per il bilancio energetico nazionale per la cui disciplina sarebbe (stata) auspicabile una stabilità o quantomeno una prevedibilità degli interventi! Quale impatto per gli operatori? Mettiamo il caso di un operatore che ha acquisito una grande derivazione nel 2001 avente scadenza nel 2010: ai sensi del dlgs n.79/99, cd Bersani, si trovava con una concessione dotata di un diritto di prelazione, assimilabile de facto ad una perpetuità sostanziale. L’operatore, dopo l’acquisto, ha posto in essere degli investimenti che, migliorando la produttività, hanno prodotto dei certificati verdi. Come vedremo in seguito, oggi l’operatore dell’esempio si trova con una concessione scaduta, senza visibilità né della proroga, né dell’eventuale gara con i relativi requisiti, né, elemento tutt’altro che secondario, dei criteri di valorizzazione dei suoi beni, nel caso di mancato rinnovo, incluso il recupero degli investimenti effettuati.
 
Cosa è successo? La Commissione Ue ha contestato il diritto di prelazione, in quanto ostacolo al mercato interno. Dopo un negoziato, questa è stata rimossa in cambio di una proroga decennale, in qualche modo a titolo di ristoro per gli operatori. Qui arriviamo alla prima tappa del disastro: la Corte Costituzionale, adita dai ricorsi di alcune Regioni, abroga le disposizioni in parola. Siamo al gennaio 2008 e, in breve, gli operatori direttamente o per il tramite delle loro associazioni, si attivano per addivenire al ripristino della proroga, frutto del summenzionato negoziato e che la Corte non aveva contestato se non per una violazione sul corretto coinvolgimento delle Regioni. Tale iniziativa non trovava il settore coeso, se non altro per la presenza di operatori non minacciati dalla mancata proroga, ovvero da operatori, non solo italiani, che percepivano tale situazione come un’opportunità! Si rileva che l’unico altro Paese Ue con una prospettiva di apertura del mercato idroelettrico è quello francese, anche qui a seguito di una procedura d’infrazione comunitaria.
 
La mancata coesione e, fatto in qualche modo correlato, il limitato attivismo governativo hanno prodotto un trascinamento temporale e, purtroppo, un crescente desiderio di spazio politico dei territori. Il purtroppo si riferisce alle modalità in cui tale volontà si è espressa: non un (probabilmente) corretto riequilibrio del rapporto tra le comunità montane e i concessionari, ritenuti poco sensibili alle esigenze di quelle aree, senza più il legame storico che l’occupazione nelle centrali idroelettriche generava prima dell’intenso processo di automazione, bensì la rivendicazione di un ruolo diretto nella gestione delle centrali, imponendo società miste pubblico-privato, con quote degli enti locali del 30-40%, senza oneri per la finanza pubblica. Questo in sintesi il contenuto della norma della l.122/2010. L’aspetto più deteriore del testo è stato l’assoluta consapevolezza da parte dei proponenti dei numerosi profili di illegittimità. Tra l’altro, oltre alla norma assai critica sulla società mista, riproposta poi anche nella legge regionale lombarda di fine 2010, la l.122/2010 non recuperava la proroga come ristoro per la perdita della prelazione ma come indennizzo per gli investimenti degli operatori e per consentire il rispetto del termine per l’indizione delle gare. Questa (non) proroga poi era divenuta quinquennale, dimezzandosi rispetto al termine allora concordato con Bruxelles. Oltre alla summenzionata sentenza della Corte, anche in questo caso la Commissione Ue ha contestato la norma: in particolare il riferimento agli investimenti effettuati rispetto al periodo di proroga necessita una loro valutazione preventiva caso per caso.
 
Che prospettive? Sempre l’operatore dell’esempio teme uno scenario di estenuanti contenziosi a tutela dei suoi diritti; già oggi ci sono numerosi procedimenti! Riuscirà il governo a promuovere (finalmente) una soluzione concordata con gli operatori e gli enti territoriali? Le Regioni procederanno autonomamente, a valle del dispositivo della Corte Costituzionale, tenendo conto della posizione degli operatori? La soluzione dovrebbe cercare di contemperare i diritti degli operatori, almeno su una proroga quinquennale, riconoscere loro un’equa norma sulla valorizzazione dei beni (come quella contenuta nel dlgs “geotermia”), prevedere gare con requisiti efficaci ma non irragionevoli e, soprattutto, rivedere l’equilibrio con i territori. Questo non dovrebbe però riposare su creative (ed illegittime) forme di società miste, forse dettate più da esigenze di spazi politici che da ritorni alle comunità, ma su un flusso di risorse finanziarie maggiore del passato (possiamo anche attingere all’esempio dettato dal dlgs “geotermia”?) che consenta ai territori di fare quelle scelte di sviluppo locale che nessuno meglio di loro può compiere.


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