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Una lezione per noi tutti

Le date dell’11 settembre 2001, l’attacco alle Twin Towers, e del 2 maggio 2011, la morte di Osama bin Laden, saranno ricordate come l’alfa e l’omega di un periodo caratterizzante la recente storia americana. L’attacco a New York mise clamorosamente in luce un nuovo protagonista della scena internazionale, il terrorismo islamista. Il mondo, che con la fine del comunismo si riteneva pacificato, non lo era affatto. Una diversa sfida incombeva sull’occidente e l’intero globo: al posto dell’Unione sovietica si era sviluppata un’inedita potenza malefica contro cui gli americani dichiararono la “war on terrorism” come nuova missione degli Stati Uniti nel mondo.
 
Da quella strategia antiterroristica nacquero per iniziativa di George W. Bush le guerre in Iraq e in Afghanistan che hanno impegnato l’America per un decennio. L’eliminazione, il 2 maggio 2011, di Osama bin Laden, testa del serpente terroristico, ha significato il raggiungimento di un obiettivo di grande rilevanza simbolica, approdo di complesse operazioni condotte secondo una duplice strategia, militare e di sicurezza. Oggi, si può affermare che il fronte strategico-militare in Irak e Afghanistan ha conseguito risultati contraddittori, mentre sul fronte della sicurezza nell’area occidentale sono stati acquisiti obiettivi concreti con la prevenzione di attentati, di fatto annullati dopo quelli di Londra e Madrid.
 
Una volta eliminato bin Laden, tuttavia, gli Stati Uniti si interrogano sul prezzo che è stato pagato nella “war on terrorism”. Per le finanze statunitensi il costo bellico è stimato in oltre 4mila miliardi di dollari, superiore a quello per la Seconda guerra mondiale; e il numero delle vittime americane ha superato quota 8mila oltre i 3mila morti del World trade center. Ai costi finanziari ed umani vanno inoltre aggiunti i danni di immagine che l’America ha subito in tutti i continenti con la diffusione di un antiamericanismo che si è attenuato solo con la presidenza Obama. Il clima di sfiducia e la mancanza di consenso, dominanti sotto la presidenza Bush Jr., è mutato con il nuovo presidente per due ragioni: all’interno la crisi economica del 2008 ha spostato le priorità degli americani dalla sicurezza all’economia e al lavoro; e all’estero la nuova politica di Obama ha rivisto i rapporti con l’insieme del mondo islamico non considerandolo più come un potenziale nemico, ma piuttosto come un possibile alleato nella lotta al radicalismo islamista.
 
La svolta di Obama in politica estera ha avuto effetti di notevole portata. Il giovane presidente, con il discorso all’università islamica del Cairo, lanciava la strategia della “mano tesa” verso i musulmani disposti a collaborare contro il terrorismo mentre, al tempo stesso, riaffermava la politica del bastone nei confronti dei fondamentalisti-terroristi. Mutava così la strategia per il Medio Oriente e il mondo islamico: all’uso quasi esclusivo della via militare subentravano interventi integrati militari e civili che accentuavano il peso delle operazioni di intelligence che portavano, dopo molti tentativi andati a vuoto, all’eliminazione di bin Laden. Inoltre, nelle rivolte popolari di Tunisia, Egitto e Libia si metteva alla prova il cambio strategico dell’Amministrazione americana che, per la stabilizzazione dell’area, non faceva più affidamento soprattutto sui regimi autoritari arabi, ma favoriva i movimenti per una maggiore libertà e democrazia considerati come strumenti efficaci per arginare il fondamentalismo islamico. Obama cambiava anche linea su Israele esercitando una forte pressione sul governo Netanyahu con l’obiettivo di riattivare i negoziati con la controparte palestinese sulla base del ritiro dai territori occupati e della formazione dei due Stati.
 
Gli Stati Uniti di Obama, ad un anno dalle presidenziali del 2012, sono ora concentrati sui gravi problemi economici e finanziari. Il debito pubblico è volato in alto, addirittura con il pericolo del default. La disoccupazione è ai massimi livelli vicino al 10%. Gli investimenti decisi dal presidente per contrastare la crisi hanno avuto scarso effetto. I due rami del Congresso – Camera e Senato – dopo le elezioni di mid-term hanno maggioranze diverse, democratica e repubblicana, che rendono difficile l’attuazione di qualsiasi direttiva politica. È su questo sfondo, del tutto diverso da quello dominante dopo l’11 settembre per anni, che si può tentare una prima interpretazione dal punto di vista italiano.
Che cosa ha significato il trauma dell’11 settembre? In dieci anni, molte cose sono cambiate a causa del terrorismo che ha condizionato l’esistenza degli americani e degli occidentali. Senza accorgercene, la vita si è fatta talmente più guardinga e complicata che di fronte a qualsiasi evento inquietante siamo assaliti dalla domanda: chi è stato? È un terrorista islamico?
 
In Italia, la convivenza con gli islamici che dovrebbe essere vista nel quadro dell’integrazione sotto l’imperio delle nostre leggi, è guardata con sospetto e diffidenza. Dal canto loro gli americani hanno affrontato il trauma terroristico a viso aperto allestendo un ombrello di sicurezza che però è servito anche agli europei. Ancora una volta l’America ha preso la testa dell’intero occidente minacciato dal totalitarismo nichilista, affrontando – con successi, insuccessi ed errori – il nemico che per la prima volta aveva colpito anche il suo territorio.
 
Se oggi a casa nostra possiamo essere tranquilli sul grande terrorismo, in parte lo dobbiamo ai cugini d’oltreoceano. Dobbiamo dare atto agli americani che ciò che hanno fatto per loro è stato indispensabile anche per noi occidentali. Lo stesso era accaduto nella lotta al nazismo e al comunismo. Obama ha aperto dialoghi di pace anche nelle aree più difficili del mondo ed è riuscito ad eliminare, con significato simbolico, la testa del serpente terroristico. Malgrado gli errori, le arroganze e le presunzioni, dobbiamo osservare che da cent’anni a questa parte, da oltre Atlantico ci è sempre giunto qualcosa di cui noi europei avevamo bisogno per preservare la nostra libertà, la nostra democrazia, i nostri diritti e, in definitiva, la nostra stessa civilizzazione.
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