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Collaborazione di massa

Siamo abituati ad associare la rivoluzione digitale all’industria privata. I suoi protagonisti, gli uomini e le donne che hanno costruito la grande rete che tutti usiamo, sono imprenditori. E che imprenditori! Brillanti matematici e programmatori visionari, che diventano milionari a venticinque anni ed esercitano la potenza di fuoco culturale un tempo riservata ai divi del cinema e alle rockstar: gli Steve Jobs, i Larry Page, i Sergei Brin, i Jeff Bezos. L’influenza di queste persone rischia di farci perdere di vista il fatto che il fenomeno sociale forse più interessante tra quelli abilitati da Internet non appartiene al mondo degli affari. Questo fenomeno è la collaborazione di massa. Grazie alla tecnologia, alle persone che la usano e alle regole sociali che ne sostengono l’interazione, un numero molto grande di persone è oggi in grado di collaborare in modo creativo a un progetto comune.
 
Considerate Wikipedia: nel 2007 la sua versione inglese ha raggiunto i due milioni di voci, ed è così diventata la più grande enciclopedia mai scritta nella storia dell’umanità. Si calcola che nei suoi primi otto anni di vita abbia assorbito circa cento milioni di ore di lavoro, equivalenti al lavoro a tempo pieno di circa 6.500 redattori per otto anni. Solo che Wikipedia non ha redattori a tempo pieno: ha 50 dipendenti e quattordici milioni di contributori volontari. È scritta da dilettanti, ma non è meno accurata delle migliori enciclopedie tradizionali (ci sono molti studi scientifici che la confrontano con Encyclopedia Britannica, e finisce sempre in pareggio o con un leggero vantaggio di Wikipedia). I suoi autori non si conoscono e non rispondono a nessun capo, eppure riescono a produrre un oggetto molto coerente (tutte le pagine di Wikipedia condividono grafica, struttura e regole di base per la compilazione). Inoltre, si autoripara: provate a introdurre un errore o una voce falsa e vedrete che in breve (da qualche ora a qualche settimana) l’errore verrà corretto, la voce falsa rimossa. E naturalmente è sempre aggiornata, mentre le enciclopedie tradizionali devono attendere una successiva edizione per incorporare le novità.
 
Wikipedia non è un fenomeno isolato. Dovunque ci sia un computer collegato alla rete ci sono persone che collaborano. Qui un gruppo di hacker mette insieme, in cinque giorni, a budget zero e senza una struttura di comando, un sito ricercabile che raccoglie notizie sui dispersi di un disastro naturale (è successo nel 2005, dopo che il ciclone Katrina aveva devastato New Orleans); lì le ragazzine quindicenni che frequentano un forum online raccolgono un milione di dollari e li devolvono interamente in beneficenza in onore del loro cantante preferito (zero costi di gestione e amministrazione: sono le fan del baritono americano Josh Groban). Nulla di simile è mai esistito prima dell’avvento di Internet.
 
Queste storie – e moltissime altre che vado raccogliendo nel mio lavoro di economista, autore e blogger – hanno due elementi in comune. Il primo è che non sono storie di impresa: il business non c’entra. I suoi protagonisti sono cittadini volontari, non uomini di azienda. Il secondo è che l’oggetto della collaborazione è un bene comune, non un bene privato. A pensarci non è così strano: collaborare per costruire qualcosa che rimane a disposizione di tutti è abbastanza naturale. Anzi, spesso se qualcuno cerca di appropriarsi dell’oggetto che si sta costruendo a fini di profitto, gli altri reagiscono male, e la comunità rischia di disintegrarsi. Wikipedia ha fatto il percorso contrario: nata come costola di un progetto for profit si è trasformata in no profit per togliere qualsiasi ombra sullo spirito di costruzione comune della sua comunità, il vero e unico motore del progetto. Insomma, la collaborazione di massa abilitata da Internet funziona particolarmente bene quando produce beni collettivi.
 
Negli ultimi anni, alcune persone di tutto il mondo – tra cui ci sono anch’io – hanno cominciato a provare a portare queste dinamiche collaborative al settore pubblico. È un passaggio logico: lo Stato è la macchina con cui produciamo le nostre risorse comuni, dalla giustizia alla rete ferroviaria, e ha molto senso che si doti delle migliori tecnologie disponibili e impari a usarle. Abbiamo provato a riprogettare completamente alcune attività di governo e di Pubblica amministrazione – dalla concessione di brevetti alle politiche di sostegno alla nuova impresa, dal monitoraggio della manutenzione stradale alla progettazione di centri culturali – in modo che traessero il massimo vantaggio dalla disponibilità di migliaia di cittadini a collaborare con le loro istituzioni. Abbiamo fatto esperimenti con la Casa Bianca, il 10 di Downing street, la Banca mondiale, il ministero dello Sviluppo economico italiano, le istituzioni autorevoli. Qualche volta abbiamo fallito, ma più spesso abbiamo avuto successo; e dai fallimenti abbiamo imparato molto. Ormai è chiaro che, almeno in alcuni casi, è possibile rendere l’azione di governo un po’ più simile a Wikipedia: efficiente, veloce, partecipata.
 
C’è un prezzo da pagare. Per collaborare, i cittadini chiedono molta trasparenza e molta apertura: a loro merito, molte amministrazioni stanno facendo veri sforzi per adeguarsi. È impossibile dire dove porterà questa trasformazione, ma è probabile che sarà molto profonda. Sono tempi eccitanti per lavorare nella Pubblica amministrazione: i governi non solo usano le tecnologie più avanzate e possono contare su risorse organizzative ed economiche enormi, ma lavorano sulle grandi priorità del nostro tempo – dall’ambiente al lavoro, dalle infrastrutture all’inclusione. Questo è molto più interessante che non progettare l’ennesimo social network! Insomma, care e cari impiegati pubblici e rappresentanti politici eletti, non accontentatevi di essere spettatori della rivoluzione digitale quando potete esserne protagonisti. E non lasciatevi intimidire dalla retorica business dell’ambiente tecnologico. Ricordate che Internet non l’ha inventato un imprenditore: è un progetto governativo.
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