Rebecca è «brutta. Proprio brutta» e perciò «non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia», tanto che non le resta che guardarla «attraverso la fessura che la paura e la vergogna lasciano aperta», sapendo che le è concesso «di esistere sul ciglio estremo del mondo», in bilico, ai bordi, sul margine.
«Una donna brutta non sa dire i propri desideri. Conosce solo quelli che può permettersi… quando va a teatro sceglie sempre l’ultima fila e arriva all’ultimo minuto, appena prima che le luci si spengano, e sempre d’inverno perché il cappello e la sciarpa la nascondano meglio». Come sia brutta in realtà non è detto, se non per generici accenni: capelli ispidi, bocca che pende a sinistra, occhio storto, alluce camuso, pelosità invadente; ma la conclusione è perentoria: «un’offesa alla specie», «una creatura sgraziata e mostruosa».
La questione è posta nella sua drammatica irresolubilità sin dalla prima pagina ed è posta inequivocabilmente dando la parola direttamente a Rebecca, cosicché nessun altro punto di vista potrà autonomamente emergere sulla pagina, dove si impone, invece, la reazione di disagio di chiunque debba avere un rapporto con lei, sin dal momento in cui viene al mondo: innanzitutto la madre, che vede nella bruttezza della figlia il riemergere di una tara familiare che la inchioda, nonostante la sua luminosa bellezza, a una colpevolezza senza rimedio, tanto da mettersi a lutto quando nasce la figlia, alla quale aveva dato un nome che significa «donna che piace agli uomini», e poi ammalarsi di depressione e rinchiudersi in un disperato silenzio per, infine, cancellarsi e sparire; quindi il padre, anch’egli «bellissimo», che proverà a resistere più a lungo, ma sarà costretto a riconoscere la propria impotenza di fronte alla violenza che i compagni eserciteranno sulla figlia infierendo feroci; infine la zia, che si illude di poter restituire a Rebecca, attraverso il pianoforte e la musica, almeno una parte di quel mondo che intanto la rinnega, ma soccomberà, anch’essa inadeguata alla prova.
Se la vergogna e la paura allontanano la ragazza dal mondo, se un allarme rapidamente percepito da chiunque le si avvicina, la trattiene nell’incerto spazio del bordo, Rebecca riuscirà comunque a intessere un piccolo mondo di relazioni privilegiate per non perdersi nell’universo notturno delle sue fughe solitarie: Maddalena, prima di tutti, che trova nel rapporto con la bambina il compenso della perdita dei suoi bimbi «dai capelli rossi» in un terribile incidente che ha distrutto ogni sua speranza, e da subito la amò «con la forza di un bisogno»; Lucilla, piccola e grassa, e forse per questo disposta a condividere l’isolamento e la lontananza dai compagni di scuola e a esserle amica; il maestro De Lellis, che la educa al piano, e soprattutto la madre di lui, che nasconde un segreto mostruosamente indicibile. In questo mondo parallelo, emarginato e senza speranze, Rebecca cresce faticosamente, attraversa la sua adolescenza, che «sorprese a tradimento la sua vita e la schiantò con la forza indifferente e sciatta di un uragano», e non soccombe, nonostante l’abbandono di entrambi i genitori, anzi riesce a capovolgere il segno di un destino impresso sin dalla nascita, fino a un paradossale «lieto fine» che si apre su inattesi orizzonti affettivi ed esistenziali.
Mariapia Veladiano si rivela con La vita accanto (Einaudi, pp. 170, euro 16,00) scrittrice di imprevedibili capacità introspettive, disegnando un ritratto di fanciulla che si sottrae a qualsiasi stereotipo letterario, anzi ne ribalta, persino con provocatoria irriverenza, il senso più prevedibile, per restituire alla vita interiore – dello spirito, dell’anima – la forza di confrontarsi con le miserie di un microcosmo provinciale senza diventarne succube.
In questo romanzo quello che lascia stupefatti è la metamorfosi della protagonista, alla fine capace di rivelarsi «stra-or-di-na-ria-men-te più bella» di tutti, incapace di odio − «l’odio è un sentimento che non so… è per chi non capisce» − e pronta ad accogliere l’altro senza pregiudizi di sorta.