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La parabola della Responsabilità sociale d’impresa

Se è vero che la grave crisi economica in atto rende ineludibile la necessità di riformare il “business as usual”, appare ugualmente urgente lavorare anche su una evoluzione della “Csr as usual”, la quale – così com’è – rischia solo di infilare le ambizioni di “ethical shifting” dell’economia in un vicolo cieco.
La Csr ha sinora prosperato mettendo al centro della propria riflessione le azioni (prevalentemente compensative) di redistribuzione sociale del valore generato attraverso i processi economici. Ma, così facendo, si è ritagliata un ruolo sostanzialmente marginale e didascalico, incapace di influire adeguatamente sul ripensamento delle logiche fondanti dell’agire imprenditoriale.
 
C’è un passo del Vangelo che, a mio avviso, da una parte simboleggia perfettamente i luoghi comuni nei quali la Csr rischia di restare impantanata e, dall’altra, indica la più autentica e compiuta visione dell’etica d’impresa.
Il passo è quello nel quale Gesù racconta la parabola dei talenti (Mt 25, 14-30).
Ne ripropongo sinteticamente il contenuto. Un uomo, dovendo partire per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. Ad uno diede cinque talenti, all’altro due e al terzo uno solo. Il servo che aveva ricevuto cinque talenti andò subito a negoziarli e ne guadagnò altri cinque. Anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Invece il servo che aveva ricevuto un solo talento, temendo di perderlo, fece un buco nella terra e ve lo nascose. Quando ritornò il padrone, chiamò i servi a render conto. Quello che aveva ricevuto cinque talenti ne presentò altri cinque e il padrone allora lo benedisse e gli regalò i dieci talenti. Si presentò poi il secondo, che ne aveva guadagnati a sua volta altri due e il padrone regalò anche a lui i quattro talenti. Infine si presentò il servo che aveva ricevuto un talento solo, che riconsegnò al padrone dicendo: “Ho avuto paura di perderlo e l’ho nascosto sotto terra” Il padrone allora gli tolse quell’unico talento, perché non l’aveva fatto fruttare e lo cacciò.
La parabola si conclude così: “… poiché a chi ha, sarà dato in sovrabbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.
 
Ad una prima lettura, il significato della parabola potrebbe risultare controintuitivo rispetto a ciò che comunemente viene associato al termine “etico”, ovvero solidale, disponibile verso i bisogni del prossimo. Soprattutto la frase finale sembra fare un po’ a pugni con il nostro istintivo senso di giustizia. Perché questo passo del Vangelo sembra voler offrire una sponda teologica ai fenomeni di accumulazione delle ricchezze in capo ad una parte del genere umano – e ai simmetrici processi di progressivo impoverimento che schiacciano l’altra parte – contro i quali si dichiara qualunque persona di sani principi e saldi valori etici?
In realtà questo brano consente di gettare, in maniera straordinariamente efficace, una diversa luce proprio su ciò che viene comunemente identificato come l’essenza del comportamento etico: la filantropia, il solidarismo, l’assegnazione di benefici a prescindere dall’impegno e dal merito.
 
Il primo assunto forte che si ricava da questa parabola è che l’etica – prima ancora che alla semplice redistribuzione del valore – afferisce alla sua generazione.
Tra il tempo dell’affidamento dei talenti ai servi e il tempo del ritorno del padrone deve esserci un tempo di risposta e di lavoro.
I primi due servi lavorano su ciò che hanno ricevuto. Si mettono in cammino, rischiano, perché comprendono che quell’uomo ha fatto un gesto che merita una risposta feconda. L’altro servo è connotato dalla paura e dall’ignavia. Il suo atteggiamento ha a che fare con l’isolamento, con la rinuncia. Questo servo non viene punito perché non ha fatto fruttare a sufficienza i talenti a lui assegnati, ma perché nemmeno ha provato a farli fruttare.
Il comportamento censurato è quello di chi non osa, non si mette in discussione, ma tenta semplicemente di conservare la rendita che gli è stata affidata.
 
Questa parabola ci dice quindi che il nòcciolo di un vero discorso sull’etica dei processi economici sta nella gestione del rischio d’impresa: il modo in cui azionisti e management decidono di affrontare questo rischio è decisivo.
L’atteggiamento di fondo che deve caratterizzare l’imprenditore etico viene identificato nel non accontentarsi di lucrare da eventuali rendite di posizione.
Ciò conduce al secondo concetto illuminante di questa parabola: nessuno può considerarsi dentro un discorso etico quando non è disposto a mettersi in discussione, ad accettare una sfida, a reinventarsi continuamente.
L’innovazione non è una delle tante opzioni competitive disponibili: è la ragione profonda del “fare impresa”. L’innovazione (di prodotto, di processo, organizzativa, del modello di business) è l’essenza stessa dell’agire economico sostenibile. Questa rilettura “evangelica” della Csr è a mio avviso straordinariamente funzionale, prima di ogni cosa, ad un profondo ripensamento della strategia d’impresa.
 
Gli stakeholder non possono più restare confinati nel ruolo di destinatari passivi di una quota del valore prodotto dall’impresa, ma vanno intesi come decisivi alleati delle “politiche di generazione del valore”. L’impresa che coniuga sostenibilità e competitività è innanzitutto quella capace di ripensare le proprie logiche di business, attivando intensi processi di generazione e condivisione sociale della conoscenza, che a loro volta diano luogo ad una co-progettazione e co-produzione del valore economico.
Quando le aziende capiranno che la fecondità dei loro “talenti” sarà sempre più direttamente proporzionale all’intensità della loro condivisione con quelli detenuti dai loro stakeholder – e si comporteranno di conseguenza – allora forse si comincerà a smettere di considerare la Csr niente più che il comodo paravento dietro il quale il “business system” ha sinora tentato di occultare le sue profonde e persistenti contraddizioni. E si potra aspirare davvero a cambiare volto all’economia.


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