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We-gov. Ecco come

Per cambiare davvero le cose in Italia, e cambiarle in meglio, non occorre spingere in strada centinaia di migliaia di persone, come è accaduto agli indignados della primavera spagnola, trasmessi in diretta web per giorni e giorni e poi inghiottiti dalla calura estiva. No. Non è questa la rivoluzione che serve. Si tratta piuttosto di utilizzare la potenza del web per ottenere finalmente delle buone decisioni politiche – informate, partecipate, creative, trasparenti. E c’è un solo modo per farlo: arrivare a quelle decisioni attraverso la collaborazione continua ed organizzata dei cittadini.
 
Dal punto di vista teorico, il passaggio dall’e-gov al we-gov è già avvenuto. Il governo-wiki, ovvero l’amministrazione che prende a modello ed utilizza gli strumenti collaborativi usati per esempio ogni giorno da migliaia di estensori anonimi e volontari di Wikipedia, è ormai oggetto di discussioni tutt’altro che accademiche; e la Wikicrazia è molto più dell’ultima nuova idea: per molti è l’unica via per ridare slancio all’azione di governo al tempo di Internet.
Da sponde politiche e culturali opposte, le amministrazioni del presidente Usa Obama e del premier britannico Cameron stanno già sperimentando con successo strumenti di governo wiki per affrontare alcuni dei problemi che hanno davanti con il sostegno di una “intelligenza collettiva” organizzata grazie a Internet. Non si tratta di un modello astratto o fantascientico, è invece un ritorno all’antico: alla agorà greca, la piazza principale della polis; solo che la piazza dove incontrarsi questa volta è una piattaforma tecnologica di comunicazione e collaborazione.
 
Ci saranno fughe in avanti e passi indietro, facili entusiasmi e fallimenti, ma l’approdo finale appare certo: grazie alla progressiva diffusione della banda larga e all’inevitabile arrivo al potere di una generazione di nativi digitali, è convinzione comune che entro il 2020 “le forme di cooperazione online accresceranno la disponibilità di governi, aziende, istituzioni ed organizzazioni no-profit a recepire e soddisfare più apertamente le necessità della popolazione” (conclusione del report 2010 della Elon University e del Pew Research Center).
L’Italia ha quindi bisogno di questa rivoluzione digitale. Una rivoluzione pacifica, operosa, collettiva. Ne abbiamo bisogno per uscire dalla crisi in cui siamo finiti, per restituire credibilità alle istituzioni e per attivare un circuito virtuoso di creatività e meritocrazia che faccia ripartire l’economia e garantisca una crescita duratura. Il punto da attaccare subito è la pubblica amministrazione. Al giorno d’oggi, per la pubblica amministrazione limitarsi ad avere dei siti dove i cittadini possono ottenere informazioni e richiedere certificati senza fare la fila vuol dire offrire sì un servizio utile (che pure in Italia stenta a decollare), ma in definitiva significa usare solo una parte infinitesima della potenza della rete.
 
L’antitodo a tutto ciò è il contributo dell’intelligenza collettiva, ma per attivare la partecipazione dei cittadini, chiedendo loro tempo e attenzione, ci sono due condizioni da soddisfare, e un requisito. La prima condizione è adottare la trasparenza radicale. I palazzi della politica devono diventare palazzi di vetro dove ciascun cittadino possa guardare dentro e concludere che non ci sono trucchi o inganni. Rendere trasparenti e consultabili i singoli atti di ciascun eletto è perciò un servizio profondamente democratico: vuol dire che i politici diventano immediatamente responsabili di quello che fanno. E quindi costringerli a comportamenti migliori, più coerenti, e a spiegare eventuali decisioni controverse che dovessero legittimamente assumere.
 
La seconda condizione è liberare i dati. L’Open Data, ovvero la disponibilità dei dati pubblici in formati adeguati alla consultazione e alla elaborazione, è un passaggio essenziale per favorire la partecipazione creativa. Un lavoro creativo sui dati serve non solo a svelare fenomeni complessi, ma è lo strumento per creare applicazioni che offrano servizi utili al cittadino (gli orari dei mezzi pubblici, i negozi aperti di domenica, i posti liberi negli asili). Negli Stati Uniti e nel Regno Unito lo hanno già fatto e come ha spiegato il responsabile del progetto americano Vivek Kundra, il punto non riguarda soltanto rendere i dati e quindi il governo trasparente, ma piuttosto “è un riconoscimento del fatto che la creatività e l’ingegnosità del nostro popolo sono molto superiori a quella di chiunque lavori a Washington”. Ed è ora di chiamarli a collaborare con chi decide: “I cittadini non devono più essere considerati governati ma cocreatori delle politiche pubbliche” .
Se queste due condizioni sono rispettate, dal cittadino è possibile attendersi partecipazione. Ma perché ciò avvenga c’è un requisito essenziale: la tecnologia deve essere facile. Proprio come quella che usiamo tutti giorni nella elettronica di consumo (pc, tablet e smartphone); con una interfaccia intuitiva come quella dei social network.
 
L’Italia è pronta per questa rivoluzione che non potrà non partire dal basso. Dai comuni. Perché è a questo livello che la politica perde gran parte del suo connotato ideologico per diventare risoluzione di problemi di vita quotidiana di ciascuno di noi. Si dirà: in Italia la percentuale sull’uso di Internet è bassissima rispetto ad altri Paesi europei. È vero, ma abbiamo appena superato il 51 per cento della popolazione, è comunque una soglia anche psicologica importante; inoltre le recenti elezioni amministrative e i referendum hanno messo in luce una voglia di partecipazione online, anche creativa e ludica, che si è rivelata fondamentale nel determinare i vincitori. Dieci anni fa, quando ancora la tv e i tg nazionali erano la principale fonte di informazione della stragrande maggioranza degli italiani, i quesiti referendari non avrebbero mai raggiunto il quorum. Oggi, con Internet, non è più così. Questo patrimonio non va disperso. Si tratta di convogliare quella voglia di partecipare, dalla campagna elettorale alla amministrazione quotidiana della città. La tecnologia in gran parte già esiste e costa poco. Gli sviluppatori di software in Italia sono tanti e bravi. Facciamolo. Sarà una vera rivoluzione.
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