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America latina, la teoria del pendolo non basta più

Per lungo tempo, le storie politiche dell’America latina hanno confermato con l’evidenza dei fatti la teoria che il sociologo italo-argentino, Gino Germani, aveva elaborato dopo aver riflettuto su una dinamica sincronica che sembrava coinvolgere gli Stati del subcontinente. In quella sua “teoria del pendolo”, Germani metteva in rilievo come una sorta di dondolamento collettivo accompagnasse i processi politici latinoamericani, ora spostando gli Stati verso il quadrante della democrazia e ora verso il quadrante della dittatura. Naturalmente, non vi era una sistematicità meccanica nella realizzazione di quella cìnesi, cioè non è che tutti i Paesi restassero coinvolti, e teleologicamente obbligati a seguire l’uno o l’altro dei due movimenti, alternativi in progressione; ma, certo, era come se un vento di conservazione o – all’opposto – di ribellione soffiasse sull’intera geografia politica, dal Rio Bravo alla Terra del Fuoco, e trascinasse nel suo corso le scelte dei governi e i destini dei popoli.
 
La linea di separazione – o comunque la spinta che faceva mutare il corso del “pendolo” – era segnata dalle occasioni elettorali, che offrivano l’opportunità alle classi dirigenti dei singoli Stati di realizzare progetti politici nei quali il ruolo dei poteri economici, sociali e militari poteva trovare una sistemazione adeguata alla capacità di ciascun potere di influenzare il corso della società nazionale. Ma il terreno di definizione di quel confronto non era segnato soltanto da fattori endogeni; il ruolo degli Stati Uniti (nell’eredità della Dottrina Monroe), e la proiezione delle tensioni della Guerra fredda, erano fattori che finivano per incidere con un peso rilevante sulle dinamiche elettorali, in alleanze che spesso vedevano vecchie corporazioni economiche e militari scegliere percorsi dove l’interesse nazionale era subordinato a logiche a-storiche di conservazione e/o a strategie globali: la risposta di Roosevelt al golpe di Somoza (“Sarà pure un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”) riassume mirabilmente la natura di questa dipendenza dall’esterno.
 
La stessa storia sociale del subcontinente, con la sua forte radice coloniale, spiegava poi come la dinamica politica fosse imbrigliata da una polarizzazione estrema, che rendeva paradossalmente più rapido il posizionamento del pendolo “collettivo” tra democrazia e dittatura: il moto, infatti, si manifestava in assenza di autentiche borghesie nazionali, capaci di elaborare un respiro politico che potesse contenere all’interno di una dialettica di legittimità l’influenza spesso decisiva delle alleanze tra potere militare e potere economico di matrice terriera. E il populismo, come elemento d’identità dei soggetti che puntavano alla conquista del potere, era una sorta di connotazione espressiva della lotta politica che si manifestava in questo vuoto di elaborazione, tanto a destra quanto a sinistra.
 
Il superamento di questa dinamica obbligata aveva trovato riflessioni e proposte in molti ambiti delle società nazionali, ugualmente a destra come a sinistra; ma, soprattutto dopo la tragica conclusione dell’esperimento allendista, un processo interessante d’analisi si era catalizzato in un importante lavoro di Jorge Castaneda (Utopia sin armas), che, negli anni Ottanta, esortava alla creazione di uno spazio politico dove il ribellismo dei risentimenti di classe sapesse fondersi con lo spirito riformatore dei movimenti della sinistra, per frantumare certe derive che limitavano l’agibilità politica della partecipazione popolare nella costruzione della politica (però quella esortazione si è poi tramutata nella delusione del suo diretto impegno politico in un governo messicano).
 
Questa sintetica ricostruzione storica è utile per cogliere quanto sia mutato oggi il panorama dell’America latina, nella considerazione di un anno segnato da molte scadenze elettorali: si è già votato, infatti, nell’Argentina della “presidenta” Kirchener, nel disperato Guatemala dell’ex-generale Pérez Molina, nel Nicaragua dell’ex-guerrigliero sandinista Daniel Ortega, e si voterà poi a El Salvador (marzo del 2012), nel Messico dominato dalla guerra mortale del narcotraffico (luglio 2012), e infine nel Venezuela drammaticamente polarizzato dal colonnello Hugo Chávez.
 
Appare da subito impossibile ricondurre il confronto politico in corso – e le risultanze che comunque si sono già avute – all’interno dello schema di Gino Germani, poiché l’articolazione delle proposte riflette oggi una maturità di percorso che, sia pure a livelli differenziati, sta stretta dentro l’eccessiva semplificazione di quello schema. Mutato lo scenario internazionale, superata la drammatica crisi economica che ha travolto alcuni sistemi finanziari e produttivi dei Paesi latinoamericani (dal 1980 al 2003 l’America latina ha subito ben 38 crisi economiche), oggi gli Stati di quella regione possono rivendicare quasi ovunque una autonomia di scelte dove le ragioni “nazionali” possono imporsi su molti dei fattori tradizionali di condizionamento, nel bene come nel male.
 
L’elezione guatemalteca, con il suo risultato di sconcertante rientro nel profilo dei governi autoritari e populisti dopo la parentesi di Alvaro Colom, e però anche lo spregiudicato pragmatismo di Daniel Ortega che tiene il potere in rottura con ogni suo passato ma in sintonia con l’assistenzialismo ideologico di Chávez e dentro l’abbraccio opportunista della Chiesa antiabortista, sono due degli esempi più significativi di questa nuova mappatura politica della regione. Il Brasile resta sempre il leader incontrastato di ogni possibile progetto di integrazione sovranazionale in America latina; muovendo dal Cono Sur, o dalla sponda meridionale del Rio Bravo, quel progetto può trovare nei risultati elettorali opportunità da esplorare. “Sin utopias”, però.


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