Il mondo che Antonio Debenedetti esamina e ritrae nella serie di racconti che raccoglie ormai da quarant’anni è dall’origine segnato da colpe e vizi e, quindi, dalla vergogna e dall’inganno, da una miseria materiale e morale, come se il tarlo di un’intrinseca corruzione avesse consumato qualsiasi umana grandezza o nobiltà, qualsiasi immaginabile bellezza, tutte confinate nel silenzio di un’illusione impraticabile. I gesti e le parole degli uomini che si agitano nelle pagine sono sempre più disperatamente insensati, sempre più assurdamente crudeli, sempre più depauperati di qualsiasi sentimentalismo, di qualsiasi commiserazione o pena.
Basterebbe l’esergo con il quale si apre Il tempo degli angeli assassini a lasciare il lettore stupefatto e sospeso, come se della realtà in primo piano apparisse solo quello che normalmente è nascosto: «I quattro angeli giocarono in doppio una partita d’ali», recita cantando l’autore e il nonsenso ci travolge beffardo e al tempo stesso ci sfida a guardare oltre il titolo, che accosta il bene e il male, smagato e provocatorio. Poi le storie iniziano con un guizzo imprevedibile che spiazza e frastorna – «Il destino ride sotto i baffi, strizzando gli occhi al caso» – e procedono proponendo dettagli paradossali, disegnati con deliberata «disattenzione». Il mondo, ormai, è definitivamente impazzito, non rispetta regole o valori, oscilla barcollante sul baratro, trovando l’estro di una smorfia o uno sberleffo, indifferente al giudizio.
Debenedetti è uno scrittore moralista che guarda il disfarsi della società a cui appartiene per storia, censo e cultura, con disincanto e dissimulato disgusto, ma in cuor suo conservava vivida la nostalgia di un ordine infranto: ora non ha più l’energia per indignarsi e si diverte stizzito,insistendo a catalogare i segni, le tracce di una devastazione compiutasi. Se per la modernità è sufficiente fermarsi a sentire «il respiro della propria anima vuota», o specchiarsi per ammirare un’«avvenenza corretta da un fascino un tantino fané», tanto sotto la pioggia «tutto ha il colore della cenere», tanto più se si aspetta un capodanno che non si festeggerà in un millennio «in cerca di vocazione»; per un letterato incantatore i conti torneranno soltanto al prezzo della stessa vita, con copiosa fuori-uscita di materia cerebrale provocata da una tardiva ma spietata vendetta della povera donna sedotta.
Se il protagonista, che è un «uomo dall’aspetto buio e dal passo meccanico», «flessuoso più che magro», può senza ragione trasformarsi in un killer che a caso condanna i personaggi di una comunità borghese, dove non si riesce a distinguere il bene dal male; oppure è uno scrittore, «che nessuno ritiene avviato alla celebrità», ingelosito dalle trasgressioni lesbiche di una moglie bella «in modo curiosamente aggressivo e pudico», allora basta «un tizio in giacchetta di finto lino» a scatenare un’insensata furia omicida, cosicché il malcapitato finisce sotto il treno metropolitano ignaro e incolpevole. Tra gli otto racconti di questo libro ce ne sono dunque di orribilmente macabri, tanto più moralmente sprezzanti quanto più ingiustificato e gratuito è l’irrazionale scatenarsi della violenza, ma ce ne sono degli altri più sottilmente complici e avvolgenti, dove lo scacco finale non pretende indignate ripulse, ma si accontenta di umilianti rassegnazioni o di incantate ma fugaci illusioni.
Il risultato, alla fin fine, è sempre lo stesso: il dissolversi di qualsiasi speranza, il consumarsi di ogni attesa di cambiamento. Se all’inizio degli anni Settanta era il kitsch a involgarire la vita a costringerci al confronto con la dissoluzione dell’universo borghese, ora, che di quel mondo restano soltanto i frantumi, disegnarne un paesaggio compiuto è letteralmente insensato e non resta altro che ingrandirne gli aspetti deformi, le devianze repellenti, il misero orrore quotidiano, al quale non si scappa, nonostante la resistenza di un profondo disgusto. Figlio di un Novecento elegante fino a ridursi ad essere dandy, Debenedetti ne ripete le parole sottili e aggraziate, per rivelarne l’intrinseca vanità. Del passato ormai nulla resiste e del futuro non si intravvede un’aurora accattivamente.