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Obama, ancora tu?

It’s the economy, stupid. Correva l’anno 1992 quando James Carville, lo stratega della campagna elettorale di Bill Clinton, sottolineava con questa formula, tanto colorita quanto efficace, quale fosse il tema vincente per conquistare la Casa Bianca. Vent’anni dopo, con le presidenziali del 2012 all’orizzonte, quel monito torna ad essere attuale ed anzi si fa persino più stringente per Barack Obama e i suoi avversari del Grand old party. A meno di un anno dal voto, tutti i sondaggi convergono infatti nel collocare l’economia in cima alle priorità dell’elettorato statunitense. Non l’uccisione di Bin Laden né il ritiro delle truppe dall’Iraq, né tanto meno la fine del regime di Gheddafi, avranno, il prossimo 6 novembre, un peso specifico paragonabile a quello dell’economia.
 
Del resto, come ha osservato The Economist, sia democratici sia repubblicani sono consapevoli che “il posto dell’America nel mondo dipenderà dalla forza della sua economia”. Sono lontani gli anni dell’amministrazione Bush quando, nell’America scossa dall’11 settembre, la politica estera e le misure di sicurezza antiterrorismo calamitavano l’attenzione dell’opinione pubblica.
 
D’altro canto, già lo stesso Obama, nel 2008, vinse perché convinse la middle class che sarebbe stato più capace del suo avversario nell’affrontare la crisi economica. Pochi oggi ricordano che, prima del 15 settembre 2008, (giorno del fallimento di Lehman Brothers) John McCain era in testa ai sondaggi e che, nonostante l’entusiasmo suscitato dalla sua campagna elettorale, solo dopo il crac finanziario il candidato del Partito democratico prese il largo.
Dunque, il 4 novembre di tre anni fa, l’elettorato americano diede mandato ad Obama di “far ripartire” l’economia. Era questo il change che si aspettava dal giovane senatore dell’Illinois. Un risultato finora mancato, che ha prodotto indirettamente movimenti quali Occupy Wall Street e che si ripercuote sul giudizio degli americani nei confronti dell’operato dell’amministrazione democratica. A fine ottobre scorso, un sondaggio pubblicato dal settimanale Time rilevava che per l’81% degli elettori l’America ha preso la direzione sbagliata. Ancor più significativamente, a fine settembre, un sondaggio Gallup mostrava come per il 53% degli americani l’attuale presidente sia responsabile del cattivo stato di salute dell’economia. Le critiche si appuntano in particolare sull’emorragia di posti di lavoro. Se, in effetti, al momento dell’insediamento di Obama alla Casa Bianca, nel gennaio 2009, il tasso di disoccupazione era già al 7,6%, tre anni dopo questo dato era salito fino al 9%, superando in molti Stati la doppia cifra. Mai, dai tempi di Franklin Delano Roosevelt, un presidente è stato rieletto con un tasso di disoccupazione così alto.
 
Chi difende Obama, che seppur in difficoltà si conferma ineguagliabile fundraiser, sostiene che senza gli interventi statali per salvare il sistema finanziario e l’industria automobilistica, la situazione sarebbe oggi ancora più disastrosa. Molti però, e non solo a destra, accusano il presidente di aver tentennato troppe volte alla ricerca di un “terreno comune” irrealizzabile. Una carenza di leadership emersa in modo evidente nella tormentata vicenda dell’innalzamento del debito con il conseguente storico declassamento da parte di Standard and Poor’s. Per questo, pur mantenendo una valutazione positiva sulla persona, in tanti si chiedono oggi se Obama sia up to the job, all’altezza dell’incarico. C’è poi la questione della contestata riforma sanitaria che ha assorbito Obama nella prima fase del suo mandato. È ormai opinione condivisa che il presidente avrebbe dovuto sfruttare il periodo di consenso iniziale, di cui tradizionalmente godono i neoeletti, per varare misure contro la crisi occupazionale piuttosto che mettere mano all’ingarbugliato sistema sanitario (solo recentemente, Obama ha investito risorse ed energie su un grande piano per la creazione di posti di lavoro). Inoltre, alcune disposizioni dell’Obamacare, su aborto e obiezione di coscienza, hanno incontrato la ferma opposizione dell’episcopato cattolico. Un attrito che potrebbe mettere a rischio una fetta rilevante dell’elettorato di Obama, che tre anni fa ottenne il 54% dei voti cattolici.
 
Con queste premesse, il 2012 sembrerebbe l’anno perfetto per i repubblicani, ancor più dopo la vittoria conseguita l’anno scorso alle elezioni di mezzo termine. Invece, il Gop non riesce a capitalizzare le défaillance del presidente, soprattutto a causa della debolezza dei suoi esponenti. Candidati con grossi limiti, che si trovano a dover risolvere un’equazione complessa: soddisfare la base, spinta a destra dal movimento populista antitasse del tea party, senza spaventare gli elettori indipendenti che saranno decisivi in una tornata elettorale che si preannuncia quanto mai incerta. Così, rileva la Quinnipiac University, accade che mentre Obama perderebbe (di misura) contro un “generico candidato repubblicano”, vincerebbe invece con i tre candidati reali, maggiormente quotati: l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, il governatore del Texas, Rick Perry (ridimensionato dalle gaffe nei dibattiti televisivi), e l’imprenditore della ristorazione, Herman Cain (indebolito da uno scandalo sessuale). Tuttavia, in un’ampia analisi sul voto pubblicata dal New York Times, il sondaggista Nate Silver ha evidenziato che, in una situazione di stagnazione economica, sia Perry sia soprattutto Romney potrebbero avere la meglio su Obama. Di certo c’è che le presidenziali del 2012 assomiglieranno più a quelle del 2000 che a quelle del 2008. Chi vincerà, lo farà di misura. E i messaggi dei candidati saranno indirizzati, come già si vede, a mettere in luce i difetti dell’altro piuttosto che le proprie qualità. La differenza tra le ultime e le prossime elezioni passa, in fondo, attraverso lo slogan scelto dallo staff di Obama: quattro anni fa, l’entusiasmante Yes, we can. Per il 2012, l’opaco We can’t wait.


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