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Bamboccioni per forza

Nelle economie più deboli dell’eurozona, i cosiddetti Pigs (Portogallo Irlanda, Grecia e Spagna) o Piigs includendo l’Italia, “il lavoro è stato sacrificato sull’altare dell’austerità dei bilanci pubblici che rischiano il default dopo anni di finanza spensierata” (The Economist, 10 settembre 2011). Questa situazione, che interviene su una economia reale già snervata dalla crisi finanziaria Usa del 2008, propagandatasi rapidamente nell’area dei Paesi più industrializzati, si ripercuote gravemente sul lavoro e in particolare sui giovani, senza per questo risparmiare le fasce di età più mature. Ma è senz’altro sulla fascia anagrafica tra i 15 e i 24 anni, i cosiddetti millennials, cioè la generazione nata negli anni ‘80, che pesa l’incapacità dei governi di andare oltre, nella migliore delle ipotesi, a una gestione ragionieristica dei conti pubblici.
 
L’accusa di bamboccioni è risuonata parecchie volte in questi anni con riferimento specifico ad un aspetto: l’alto numero di giovani che continuavano a vivere in famiglia coi genitori, mostrando così pigrizia e uno scarso approccio al lavoro. Il copyright è di Tommaso Padoa Schioppa e, a dimostrazione che il fenomeno non era solo italiano, l’aspetto fu immortalato nel 2001 in Tanguy, un delizioso film francese.Negli ultimi sei anni, come motivazione della permanenza in famiglia, crescono significativamente i motivi di studio, che pesano più per le donne che per gli uomini. Questo accade per maggiore domanda di istruzione delle ragazze o per prolungamento dello studio per mancanza di alternative professionali? Crescono nel contempo a due cifre i motivi economici cioè l’impossibilità di mantenersi autonomamente per mancanza di lavoro o per salari insufficienti, oppure per l’alto prezzo che gli immobili hanno raggiunto. Anche in quest’ultimo caso maggiore è il carico per le donne e conferma lo strutturale e inaccettabile basso livello di occupazione femminile nel nostro Paese. Queste percentuali crescono progressivamente passando dai 18 anni fino ai 29 per poi ridursi di poco dai 30 ai 34 anni. Il risultato è che il tasso di occupazione dei figli, i cosiddetti bamboccioni, è passato dal 44% del 2007 al 38,7% del 2010.
 
Edmund Phelps e Michael Spence, due autorevoli premi Nobel, argomentano che la globalizzazione e l’innovazione tecnologica stanno portando dei cambiamenti di medio-lungo termine nell’economia mondiale tali da alterare profondamente la struttura del mercato del lavoro, a cominciare dal cosiddetto tasso fisiologico di disoccupazione. Tale osservazione pone all’Italia due differenti piani di lavoro. Il primo, strategico, riguarda il tracciato industriale su cui prospettare il consolidamento e la crescita dell’industria italiana e con essa l’occupazione dei millennials. Parallelamente si tratta di dare dimensione aziendale adeguata e proiezione internazionale ai settori che connotano l’italian life style in tutte le sue manifestazioni settoriali. Sempre parallelamente, è necessario valorizzare le irripetibilità italiane: le sue straordinarie sedimentazioni ambientali, storiche, artistiche e culturali. Il risultato è quello relativo agli ultimi anni ed è davanti ai nostri occhi. Le ristrutturazioni e le riorganizzazioni, nonché l’introduzione di nuove tecnologie e processi negli ambienti di lavoro, è stata in Italia la più bassa nel confronto con gli altri Paesi europei e al di sotto, in compagnia di Francia e Spagna, della media dell’Europa a 27.
 
Ai fini del lavoro dei millennials il risultato è paradossale: dal 2005 al 2010 l’occupazione è cresciuta in Italia dell’1,4%, il Pil in termini reali è diminuito dell’1% a causa di una produttività che, cresciuta tra il 2007-2009, è ridiscesa precipitosamente nel 2010 ad un livello inferiore a quella del 2005. Il lavoro domandato dalle imprese risulta così un lavoro senza qualità per i millennials. Per chi riesce a raggiungere una occupazione, per il 49,2% dei laureati si prospetta un sottoinquadramento rispetto al titolo di studio; e così pure per il 46,5% dei diplomati (Istat 2009). C’è evidentemente un mismatch le cui responsabilità ricadono in parti forse uguali sulla qualità e gli orientamenti del sistema formativo e sulla qualità del lavoro domandato dalle imprese.
Questa situazione non può non incidere su quello che viene statisticamente chiamato il lavoro scoraggiato, cioè quella parte di popolazione che non cerca attivamente il lavoro perché, appunto, scoraggiata nel non trovarlo. Questo fenomeno ha assunto la denominazione di neet (not in education, employment or training) delle fasce di età tra i 15 e i 29 anni. In Italia nel 2010 se ne contano circa 2 milioni, pari al 22,1% della popolazione di riferimento. La maggioranza è tra i 24 e i 35 anni, la maggioranza ha conseguito al massimo la terza media, si contano più ragazze che ragazzi. Sono aumentati di 7 punti percentuali rispetto al 2009 e la percentuale è nettamente superiore alla media europea pari al 14,7%. Questa condizione spinge anche verso un depauperamento culturale e ad una devitalizzazione sociale (Geraldina Roberti, Il senso dei giovani per il consumo, Bonanno editore, 2011).
 
Il problema della disoccupazione giovanile è un problema palese, che non deve interessare solo le fasce di età dei millennials. Il danno di perduranti periodi di disoccupazioni, il lavoro senza qualità e l’assenza di prospettive, anzi con il pericolo che le aspettative di benessere e serenità siano inferiori a quelle realizzate dai padri, è di una gravità non valutata attentamente. Rischiamo che una o più generazioni possano sentirsi senza futuro. Si rischia un tessuto sociale frustrato, attraversato da insoddisfazioni, malcontento: virus che possono infettare le prospettive sociali e civili del Paese.
C’è quindi un lavoro urgente ed enorme da fare che deve impegnare certamente lo Stato ma anche le rappresentanze datoriali e sindacali, così come tutte le altre forme associative che partano iniziando a non privilegiare i propri interessi di cluster. I risultati morali e civili che se ne possono trarre avranno un effetto anche su quelli economici.
Morali e civili perché una società si riconosce in se stessa e si eleva se non lascia indietro nessuno, o comunque dà una speranza ragionevole a tutti riconoscendo i meriti e intervenendo solidalmente sui bisogni di ognuno.


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