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I ragazzi delle 3 C

Le generazioni non sono tutte uguali. Sarebbero tali solo in un mondo in cui i giovani si trovassero inesorabilmente a vivere come vivevano i propri nonni alla stessa età. Questo vale per gli altri animali, non per l’homo sapiens. Quello che c’è di diverso nella nostra specie è il linguaggio, che rende il passaggio da una generazione alla successiva produzione di innovazione continua. Grazie a questo continuo rinnovo ciò che fino a ieri non si riusciva a vedere o dire, può proporsi oggi a nuovi occhi e a inedite forme di espressione. Se non vi fosse l’innovazione che ciascuna nuova generazione porta, se i figli non osassero fare qualcosa di più rispetto a padri e madri, se i nuovi entranti non avessero l’ingenua arroganza di rimettere in discussione vecchie certezze, vivremmo ancor oggi nelle caverne.
 
Non ci sono generazioni migliori delle altre. Ci sono però generazioni che si trovano ad interpretare meglio il cambiamento del proprio tempo. Diventano protagoniste della storia determinandone il corso, anziché subirne gli eventi. Lasciando un proprio riconoscibile segno.
Se l’Italia è un Paese economicamente e socialmente immobile non è quindi solo a causa di una classe dirigente inadeguata e poco lungimirante, ma anche perché le nuove generazioni stentano ad assumere il ruolo di forza di cambiamento, accettando di fatto una condizione di subalternità culturale e politica. Ci si è, del resto, chiesti per lungo tempo perché, nonostante il progressivo peggioramento delle loro prerogative, i giovani continuassero a rimanere passivi di fronte a qualsiasi scelta politica a loro svantaggio: l’enorme debito pubblico accumulato, i ridotti investimenti nella loro formazione e promozione sociale, la precarietà occupazionale, l’incertezza previdenziale, il blocco nel ricambio generazionale.
 
Tra le ragioni c’è il fatto di essersi improvvisamente trovati investiti da una tempesta perfetta, alla quale non erano preparati. Gli attuali 30-40enni, appartenenti alla cosiddetta generazione X, hanno vissuto la loro adolescenza negli spensierati anni Ottanta. Sono cresciuti davanti al caleidoscopio a colori delle televisioni commerciali. Caricati dai genitori di elevate aspettative, si erano convinti che quello che contava era laurearsi e tutto il resto sarebbe poi stato in discesa. Molti di essi, per non rivedere troppo al ribasso i propri obiettivi di vita, hanno scelto di andarsene all’estero, spesso sbattendo la porta. Chi è rimasto ha silenziosamente atteso il proprio turno, sperando che prima o poi gli venisse aperta la porta giusta. Molte storie individuali di successo, ma poca ambizione ad agire collettivamente per cambiare le regole di un gioco generazionalmente sempre più iniquo. Vittime della sindrome del principe Carlo, è verosimile che quando le posizioni al vertice della classe dirigente cominceranno a liberarsi, verranno in larga parte occupate dalla generazione successiva alla loro, quella dei “nativi digitali”.
 
Dopo le vittime perfette, sono in arrivo i “predestinati”? Forse sì. Un numero crescente di ricerche ha messo in evidenza come si stia affacciando una nuova generazione di giovani con un profilo identitario molto spiccato, non inferiore a quello dei “baby boomer”. Per un certo periodo gli si è attribuito il nome di “generazione Y” solo per il fatto che arrivavano dopo la “X”. Le ricerche successive, a partire dagli Stati Uniti, ne hanno però poi fornito un ritratto così specifico e netto da meritarsi il meno anonimo e più impegnativo nome di millennials. Tecnicamente sono coloro che non avevano ancora la maggiore età quando è iniziato il XXI secolo. Li caratterizza il fatto di non avere diretta memoria di com’era il mondo prima della caduta del Muro di Berlino, di come si viveva senza cellulari, senza Internet, senza voli low-cost. È cambiato il modo di vivere, di comunicare e relazionarsi ed i millennials hanno ben coscienza di essere i più diretti interpreti di queste trasformazioni, di essere quindi i più attrezzati ad interpretare il nuovo spirito dei tempi.
 
Più che cercare di farsi accettare dal mondo adulto, i millennials sembrano piuttosto avere la pretesa di cambiarlo, di adattarlo alle proprie aspettative ed esigenze. La loro maggiore attitudine e competenza verso le nuove tecnologie, sperimentata sin dall’adolescenza, ha favorito il prodursi di un forte senso di fiducia nei propri mezzi. Risultano infatti, nelle varie indagini fatte svolgere dai responsabili delle risorse umane, molto convinti delle proprie capacità, ma anche più decisi a farle valere. Sono pragmatici, ma anche impazienti: se i risultati non arrivano sono più facilmente esposti alla demoralizzazione e alla demotivazione.
Le loro caratteristiche sono state sintetizzate con tre C. Confident: credono soprattutto in se stessi e muoiono dalla voglia di emergere. Connected: sono nativi digitali e considerano la rete uno strumento essenziale per creare consapevolezza e coordinare progetti e azioni comuni. Open to change: sono i migliori alleati del cambiamento. Se c’è offerta credibile la sostengono. Se non c’è, la fanno germinare dal basso.
 
Scrivevamo oltre due anni fa nel libro Non è un Paese per giovani che ovunque si poteva aprire una breccia verso il nuovo, il contributo dei millennials non sarebbe mancato. I fatti più recenti si sono occupati di confermare che – si tratti del voto ad Obama, della Primavera araba, dell’indignazione in Europa, degli Occupy Wall Street – con essi l’insoddisfazione e la voglia di discontinuità dei giovani è uscita dalla fase latente. Dopo un lungo periodo di passività siamo entrati in quello della consapevolezza e della critica, dell’insofferenza verso un modello di sviluppo squilibrato che si trasforma in manifestazione aperta del dissenso.
 
Più però i problemi si cronicizzano e più la reazione, quando esplode, rischia di essere violenta e radicale. Questi giovani sentono forte l’ingiustizia e la rabbia per un presente scadente e senza apparenti vie di uscita. L’esigenza più immediata è stata quella di far sentire in modo eclatante la loro ribellione ad un sistema che li imbriglia. Si potrà giudicare la loro reazione scomposta, ma le motivazioni di fondo sono comprensibili. Di fondo però vogliono prima di tutto esserci e contare, diventare direttamente artefici del proprio destino. Non c’è dubbio che i Paesi e le aziende che meglio sapranno riconoscere e mettere a frutto le loro specifiche capacità guideranno la crescita di questo secolo.


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