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Affamati di nuovo

È problema gravissimo. Le sue implicazioni morali, sociali, economiche e demografiche sono di tutta evidenza per tutti, almeno si spera. Qui interessa tentare di farne una lettura positiva, farne una base di cambiamento della vita sociale ed economica del nostro Paese, uno “scalino” per la crescita. Si perdonino qui tre citazioni al di sopra di ogni sospetto. Amartya Sen cita Antonio Gramsci nel suo L’idea di giustizia: “Per la propria concezione del mondo… si è conformisti di qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi”.
 
Tony Judt, autore e accademico anglosassone di successo, defunto circa un anno fa, nel suo III fares the land, scritto per i giovani sulle due sponde dell’Atlantico, sviluppa lo stesso tema: “Ma c’è un prezzo da pagare per il conformismo. Un circolo chiuso di opinioni e idee… perde la sua capacità di rispondere energicamente o con fantasia alle nuove sfide”. Il suo incipit è ancora più esplicito: “C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui viviamo oggi”. Chi è stato giovane, ossia moltissimi di noi, non può aver dimenticato l’ansia di “rimanere fuori” che colpiva praticamente tutti, una volta finita bene o male la scuola.
Oggi, ma anche allora, “l’inizio dell’inizio” è, ed era, fatto di tre elementi: sapere chi assume, spostarsi dove costui opera, cercare di farsi assumere lì. Tutti questi tre elementi oggi sono difficili. Non abbiamo una vera “borsa del lavoro” unica, che fatta su Internet (e fuori dagli uffici di collocamento) sarebbe facilissima da realizzare. Non abbiamo una politica della casa a basso prezzo, perché ci ostiniamo a contingentare le licenze edilizie per motivi in parte inconfessabili e considerate da alcuni ostinatamente insuperabili. Non abbiamo una politica della scuola che cerca di bilanciare offerta di lavoro e preparazione al lavoro. Abbiamo una politica della qualificazione post-scolastica, che usa il pingue Fondo sociale europeo per altri usi poco commendevoli e noti a tutti. Sembra apparentemente oggi più facile trovare lavoro per un giovane a Londra oppure a Berlino, che non a Roma o Milano. Oppure a Roma o Milano, se si è stranieri. Non è assurdo?
Idem per il commercio e le professioni. Tutte leggi che sembrano fatte apposta per porre ostacoli, per difendere privilegi, per bloccare lo sviluppo, tutti apparentemente presi dalla sindrome descritta più sopra da Tocqueville.Ma c’è di più: la nostra è una società di vecchi, per i vecchi, non è naturaliter una società per giovani. I nostri “giovani”, ad esempio in politica, hanno mediamente sessant’anni. Chi ha una poltrona la difende strenuamente, è un suo diritto. Ma accanto ai diritti ci sono anche i doveri. Come favorire un ricambio generazionale? Come porre fine ad una “società della paura”, paura di perdere ciò che abbiamo acquisito, che è il sentimento primo di ogni vecchio, e lasciar posto ad una società “affamata” di nuovo, di crescita, era anche l’invito di Jobs, che è invece naturaliter il sentimento tipico dei giovani veri? Siamo anche qui ad un’altra clamorosa ovvietà. Lasciare crescere i giovani, lasciar loro spazio, farsi da parte, che poi è il mestiere più nobile e naturale che possano esercitare i vecchi, dovrebbe essere il dovere di tutti. Non sono considerazioni banali. Sono il sine qua non, il punto di partenza di ogni discorso serio. Non se ne vede traccia.


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