Aver trent’anni e tentare un bilancio della propria esistenza mette a nudo soprattutto lo spaesamento rispetto alla società nella quale si è cresciuti; il vuoto che sta alle spalle specchia la povertà dei progetti che ci appartengono. È difficile, tanto più a trent’anni, che un bilancio esistenziale si chiuda in attivo, e così la ricostruzione di una vita si trasforma in una geremiade di lamentele, in una denuncia di inadeguatezza, in una chiamata in causa di chiunque si sia incontrato.
Paolo Di Paolo mette subito in chiaro che la sua vita cosciente, quella di cui conserva memoria, coincide purtroppo col ventennio berlusconiano durante il quale nessuna alternativa e nessun desiderio di ribellione sono stati presenti, pertanto, a loro – ai trentenni – non è rimasto che subire un potere che non volevano e nel quale non volevano riconoscersi, vittime innocenti di un destino senza speranza.
Il titolo di questo “memoriale” è Dove eravate tutti (Feltrinelli, pp. 222, euro 15) senza il punto di domanda, che si dovesse leggerlo come un atto di accusa, perché noi – i più anziani – avremmo dovuto avere la forza di non sopportare quello che è stato.
Che i padri siano l’obiettivo polemico lo dimostra la vicenda di Mario Tramontana, professore “fresco di pensione” e genitore del protagonista, che per manifestare la propria insofferenza verso il mondo che non ha più bisogno del suo lavoro non trova di meglio che investire con l’auto il più insopportabile tra i suoi allievi.
La storia, dunque, comincia con un gesto inconsulto, uno scatto d’ira che potrebbe essere persino una vendetta e in ogni caso non somiglia affatto alla morale di una famiglia piccolo-borghese, anzi ne mette in crisi i più consolidati valori. Sono vent’anni che Berlusconi è al governo e la società è corrosa da un malessere per il quale non c’è rimedio né conforto. Il figlio vorrebbe capire com’è andata, perché mai Mister B ha dominato la scena nella quale a lui è toccato crescere, e così sceglie proprio questa vicenda politica come oggetto del suo lavoro di tesi, senza peraltro riuscire a trovare il sostegno di qualcuno dei suoi professori.
Italo, il ragazzo, pensa che noi “c’entriamo col nostro passato”, che mettere in ordine le tracce, i vecchi giornali, gli oggetti che intanto sono scomparsi, le parole che vengono a galla e quelle che affondano, sia essenziale per capire e “toccare con mano il muro che ci divide dal futuro”, e che per riuscirci bisogna “fare insieme lo storico contemporaneo e lo scrittore”, incrociando vicende pubbliche e private. L’unico modo per fare tutto questo è scrivere un romanzo, il romanzo degli ultimi anni del Novecento e dei primi del Duemila, quelli di Berlusconi, che un bel giorno sarebbe uscito di scena portandosi via un sacco di cose, tra cui la giovinezza di Italo.
La tesi non procede e il mondo intanto va a rotoli, perde i pezzi, si sfascia: se il padre perde la testa, la madre molla tutti per andarsene a Berlino; Italo, cercando di risalire il proprio tempo all’indietro per recuperare il senso di quello che è stato, la segue. Il romanzo resta un progetto esattamente come la tesi, irrealizzabile peraltro, perché quel che riusciamo a mettere insieme è soltanto la serie interminabile dei ricordi: “Il raffronto tra i tempi ha senso solo a condizione che il presente non venga ricostruito come l’unico avvenire possibile del passato”.
Di Paolo coraggiosamente ha scritto il romanzo che non c’è, un atto di accusa senza colpevoli e così finisce per prendere atto di non sapere da dove cominciare per rimediare al disordine.