Difficilmente, nella dinamica e solida democrazia americana, un presidente entra ed esce dalla Casa Bianca con gli stessi titoli, gli stessi problemi, le stesse difficoltà. Nel bene e nel male, ogni inquilino di Pennsylvania Avenue ha modo di riscattare o deludere le sue promesse, chiudendo un ciclo politico magari con un secondo mandato. Non sembra essere così per Barack Obama, catapultato alla Casa Bianca dal crack di Lehman Brothers e dall’inizio della più pesante crisi economico-finanziaria dalla Grande recessione e che da lì potrebbe essere disarcionato per gli stessi motivi. L’economia americana va male, molto male.
La disoccupazione è a livelli record, l’effetto domino del fallimento di banche, assicurazioni, società di mutui non si arresta. E il governo federale è costretto ad accollarsi i debiti del sistema, gonfiando il debito sovrano fin oltre il 100%, cosa che presto potrebbe costare a Washington la perdita del rating da Tripla A. Su questo si baseranno gli elettori americani, non su altro. Ed è forse per questo che il presidente Obama, non è chiaro quanto tatticamente, ha pubblicamente confessato che la propria rielezione potrebbe essere molto difficile. Questi elementi, assieme ad un tasso di litigiosità politica e di reciproco ostruzionismo in Parlamento, hanno già reso da tempo Obama un “presidente dimezzato”. Alcune delle sue politiche più innovative, dalla riforma sanitaria alla “rivoluzione verde” sono state accantonate interamente o parzialmente per assenza di fondi o per il ruolo preponderante che hanno assunto i repubblicani al Congresso.
Il nuovo vigore assunto dalla componente liberal del Partito democratico, così come il successo riscontrato dalla componente del tea party, stanno frammentando ulteriormente il dibattito politico e creando ostacoli alla implementazione di un piano organico per la crescita e la stabilizzazione dell’economia. Ma c’è un elemento in più ad arricchire la scena: l’America è tornata in piazza massiccia dopo più di tre decenni e il movimento Occupy Wall Street sembra prendere sempre più vigore. Il tempo ci dirà se potrà essere la cifra di un nuovo orientamento anche elettorale o solo la legittima protesta contro un sistema sempre più controverso.
Molto dipenderà, in effetti, anche dalla competizione interna al Partito repubblicano e al volto che avrà lo sfidante di Obama nel campo degli avversari. La pugnace donna del tea party, il mormone che vorrebbe far cadere i pregiudizi sulla comunità alla quale appartiene, il favorito Gingrich o il governatore tutto “legge e ordine”. Non a caso, i democratici stessi hanno assunto un atteggiamento attendista e, per quanto appaia scontata la nomination del presidente uscente, non si scartano dai tavoli ipotesi alternative, a cominciare da Hillary Clinton che, grazie anche al saggio lavoro svolto al dipartimento di Stato, potrebbe prendersi una rivincita sonora e provare ad essere la prima donna alla Casa Bianca. Tutto si giocherà sui temi dell’economia e sulla capacità Usa di continuare a produrre benessere e prosperità all’interno innanzitutto.
L’America sente fortemente la sua vocazione a mettere ordine nel caos globale. C’è un intero Medio Oriente da sistemare, con particolare riguardo al dossier nucleare iraniano; c’è la fragilità economica europea, con il rischio contagio sempre più elevato; c’è la roboante ascesa del Pacifico da governare, con un confronto sempre più acceso con Pechino in termini di competizione strategica. D’altronde gli stessi apparati di sicurezza e i vertici militari mettono in guardia da tempo sulla possibilità che la crisi economica eroda progressivamente il prestigio e la superiorità strategica degli Stati Uniti. Come sempre accade, la campagna elettorale e i suoi esiti avranno inevitabili ripercussioni sulle relazioni transatlantiche.
Se la crisi economica e finanziaria ne costituirà verosimilmente il drive, è legittimo chiedersi se l’Europa è o è destinata a rendersi progressivamente marginale e irrilevante per l’America. Con intensità variabile a seconda di chi sarà il 45° presidente degli Stati Uniti, la risposta risiede in buona parte nella capacità europea di promuovere la sua vocazione di “produttore netto di sicurezza”, intesa in senso militare ed economico, e non di “consumatore di sicurezza”, oltre che nella capacità delle due sponde dell’Atlantico di declinare le condivisibili parole dell’economista americano Paul Romer, quando afferma che “sarebbe un peccato sprecare una crisi”. America ed Europa vivono un momento di forte pressione dettata dalla più forte crisi economica mai registrata dal 1929. Dobbiamo con urgenza approfittare della crisi per scomporre e ricomporre la nostra “special relationship”, declinandola secondo le esigenze e le emergenze di questo turbolento inizio di XXI secolo.
L’allora direttore per l’intelligence, ammiraglio Dennis Blair, in una testimonianza resa al Congresso agli inizi del 2009, aveva forse sorprendentemente, ma certo correttamente individuato nella crisi economico-finanziaria la singola causa di destabilizzazione più minacciosa per la sicurezza nazionale americana. Più di Al-Qaeda, l’Iraq, l’Afghanistan o il programma nucleare iraniano. Comunque vada la competizione elettorale americana del 2012, l’Europa non potrà che indirizzarsi ad unire queste due temporanee debolezze per farne scaturire una grande forza, in grado di competere con la impetuosa ascesa di attori nuovi, dotati di una ricchezza in espansione, di un saldo demografico positivo, di una inconsueta attenzione per le dinamiche globali. Questi attori, a cominciare da Cina e India fino ad arrivare ai governi che oggi compongono stabilmente il G20, chiedono un posto al tavolo d’onore che non può essere loro negato. Non è detto che l’elettore medio americano, e chi lo rappresenterà dal gennaio 2013, non ne sia sensibile.