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Se a rischiare il default è la vecchia politica

Se Dio ci ha dato una bocca e due orecchie, riportava un detto rabbinico, è per ricordarci che dobbiamo saper ascoltare il doppio di quanto parliamo. Ovvero valutare le esigenze contingenti che il momento presenta e calibrare su di esse una proposta programmatica seria ed efficace. Contrariamente si corre il rischio di “girare a vuoto”, ignorando colposamente l’ambito e le condizioni in cui ci si muove e si agisce. Questa la consapevolezza della moderna proposta politica, all’indomani del fondamentale passaggio storico che ci siamo lasciati alle spalle. Quando, ormai, a ben poco serve inforcare gli occhiali del passato. Dal momento che i vocaboli e i vocabolari del novecento semplicemente non possono più essere utili. E allora occorre rinnovare, puntando, perché no, tutte le fiches sui progetti e non sulle appartenenze.
 
Ecco perché di fronte a sfide di portata mondiale appare improduttivo fermarsi ancora a ragionare (e farsi bloccare) su provenienze e percorsi, su appartenenze veteroideologiche o compagni di viaggio. Ma puntare dritti verso la meta, nella consapevolezza che la curva storica che il paese sta affrontando non consente sbavature. Laburisti o conservatori, progressisti o moderati: contano ancora tali classificazioni di fronte a questioni epocali? Il rischio-default, l´ambientalismo del terzo millennio, la disoccupazione galoppante, il divario industriale tra Europa di serie A e quella di serie B, la fuga dei cervelli in Australia o Stati Uniti, la ricerca rimasta senza ossigeno, il Mezzogiorno in perenne ritardo e le aziende del nord est in affanno: sono solo alcuni dei grandi dossier sul tavolo (non solo) del governo italiano, che necessitano di risposte.
 
L’eccezionalità del momento sociopolitico mondiale e continentale dovrebbe invece far maturare la convinzione che non sarebbe utile smarrirsi dietro maglie di appartenenza o ricette buone forse fino a ieri. Ma unire forze e intenti per l´obiettivo unico, tale in quanto coinvolge il bene comune della collettività e non qualche singola corporazione in attesa di “piazzare” l’emendamento che le interessa. Un passaggio che sta sfuggendo, ad esempio a qualche vertice del Pd, dove non tutti fanno mostra di saper interpretare sfumature procedurali o priorità di intervento. Invece il partito dovrebbe accettare, come da invito di Stefano Cappellini, caporedattore centrale del Messaggero in una recente intervista a Formiche, che un grande partito abbia componenti diverse e che “possa prevalerne una in un dato periodo storico, senza che le altre urlino al tradimento”.
 
Il Partito Democratico, come ha osservato da queste colonne Andrea Peruzy, anche al di là dello specifico progetto politico-culturale della Feps, ha l’opportunità di farsi artefice di un progetto di trasformazione del socialismo europeo esplicandolo all’interno di una forza politica democratica e progressista di dimensioni continentali. Che da queste coordinate sia capace di proporre azioni e confrontarsi con la sfida della crisi economica internazionale. Come dire che, scrutando l’orizzonte politico da un particolare versante, tutto ciò che non appaia finalizzato all’obiettivo concreto, proprio in questa delicatissima fase storica, rischia di essere considerato come i titoli greci: spazzatura.


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