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Spioni e luoghi comuni

Lo spionaggio è il secondo mestiere più antico del mondo, come ci ricorda il musicologo francese Peter Szendy, autore di “Intercettare” (in Italia pubblicato da Isbn). Rispetto al primo, l’amore prezzolato – con cui a volte può coincidere, come nel caso di Mata Ari – lo spionaggio “ha meno riserve morali”, sostenevano due studiosi W.G. Hane e Philip Knightley. Oggi la questione morale è decisamente superata: libri, cinema e persino la tv sono pieni di storie di spionaggio, i giornali grondano di dossier non più coperti dal segreto di Stato, come l’Archivio Genchi, le intercettazioni sono un nuovo genere letterario di consumo. “Intelligence”, con Raul Bova, è la nuova fiction di success, mentre un fotografo d’accatto, se proprio non si vuole chiamarlo ricattatore, qual è Fabrizio Corona, è cascato nel tranello di una trasmissione televisiva che gli ha fatto credere di provinarlo per il prossimo James Bond. A dimostrazione che, oggi, lo spionaggio è un racconto così diffuso che persino un paparazzo mancato può credersi il degno interprete.
 
Il primo riferimento all’arte dello spionaggio è del 500 avanti Cristo, nell’”Arte della guerra” del saggio cinese Sun Tzu. Nel sussidiario di strategie e tattiche belliche c’è scritto che “un esercito senza spie è come un uomo senza orecchie”. Ma anche nella Bibbia ci sono molti ed espliciti riferimenti allo spionaggio, in particolare nell’episodio delle mura di Gerico. È comunque dal XV secolo, in Europa, che lo spionaggio diventa un’attività codificato a praticata a livello internazionale. Diventando, poi, quel Grande gioco di cui parlava Kipling in “Kim”. Perfino in musica ci si spia, “Le nozze di Figaro” di Mozart ne sono un esempio lampante, dove tutti origliano tutti, fino ad arrivare al cinema che ha immortalato l’argomento con quel capolavoro che è “Le vite degli altri”, dove le case sono abitate da addetti all’ascolto delle vite altrui. Perché l’udito sia il senso prediletto dello spionaggio è chiaro: a meno di essere una mosca sul muro che può vedere senza essere vista, l’udito è il canale percettivo che permette di spiare senza essere spiati.
 
L’intercettazione, ricorda Szendy, è l’evoluzione finale dello spionaggio. Nell’antichità occidentale, gli spioni compaiono già ne “I segugi di Sofocle”, che ricordano la dimensione cinofila della spia: seguire tracce, annusare, battere piste, mordere i polpacci, stare alle calcagna, rovistare nella spazzatura. Un’attività bestiale, animale, istintiva, nonostante sia poi associata soprattutto alle qualità intellettive, intelligenti… all’intelligence. Ma è con l’età moderna che lo spionaggio si evolve in forme, anche narrative, più evolute. Pensiamo all’”Amleto”, con i suoi intrighi politici e personali, i tradimenti degli amici più cari e dei familiari più stretti. Jeremy Bentham, intanto, nel 1787, progetta edifici che siano controllabili, sul piano visivo, cioè panottico, e uditivo, panacustico. Una specie di Grande Fratello ante litteram, senza le telecamere e i microfoni, ma con la stessa dimensione del circuito chiuso.
 
Lo spiare diventa una professione vera e propria – ottimamente e regolarmente remunerata – tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, che poi l’epoca di Mata Ari, spia doppiogiochista tra tedeschi e francesi che, dopo esser diventata la danzatrice che viene dall’Oriente, usa gli amanti come fonti di informazioni; scoperta, verrà fucilata, dopo una condanna che è il regolamento di conti tra gli amanti che l’hanno sempre difesa e quelli che poi l’hanno scaricata. Il Grande gioco di Kipling è la politica portata avanti con mezzi spesso illeciti, nell’ambito dello scontro tra la Russia e l’Impero britannico per il controllo dell’Asia centrale. I giocatori sono persone talentuose e versatili, pronte a tutto per denaro e favori personali, dotate di una spiccata e spesso pericolosa propensione per l’avventura. Il campione assoluto è Lawrence D’Arabia, archeologo che in realtà prepara la rivolta degli arabi conto l’impero Ottomano, per conto di Sua Maestà. Stessa committenza britannica anche per James Bond, l’agente segreto più glam in circolazione. In libreria e al cinema il boom di spie arriva proprio con il personaggio inventato da Ian Fleming, dotato di grande fascino e gadget tecnologici di ogni sorta. È come una Matha Ari al maschile, James Bond, interpretato sempre da bellissimi e seducenti attori, uno su tutti Sean Connery. Caratterizza il suo mondo, oltre all’aspetto glam, dalle auto che usa a quello che beve, dalla dimensione hi tech delle sue dotazioni: l’equipaggiamento è sempre avveniristico. Quasi a testimoniare che, durante la Guerra fredda, anche nella corsa agli armamenti per gli agenti segreti, come nella corsa per lo spazio, c’è una lotta all’ultima tecnologia. I grandi racconti seguono sempre le necessità della storia. Lotte tra gli imperi, grandi giochi… e guerra fredda. Sempre Szendy sottolinea un passaggio de “I signori della truffa”, di Phil Alden Robinson, assai rivelatore. Ben Kinglsy dice a Robert Redford: “C’è una guerra là fuori, una guerra mondiale. E non ha la minima importanza chi ha più pallottole, ma chi controlla le informazioni. Ciò che si vede, si sente, come lavoriamo, cosa pensiamo. Si basa tutto sull’informazione!”.
 
Durante la Guerra fredda lo spionaggio diventa un nuovo grande gioco, dove la posta in palio, però, non è tanto l’espansione di una nazione piuttosto che di un´altra, ma l’ordine mondiale, spesso la sopravvivenza del mondo stesso, da mettere al riparo dall’azione pazzoide di criminali megalomani. Redford è protagonista anche del bellissimo “I tre giorni del condor”, film di Sydney Pollack, nei panni di un agente segreto che deve analizzare i libri provenienti da tutto il mondo, per scoprire se ci sono codici o messaggi cifrati al loro interno. Alla fine, s’imbatte veramente in un segreto che lo coinvolge in un complotto. Come a dire che narrazione e spionaggio sono fatti della stessa sostanza: trame, personaggi, tradimenti, vendette…
 
Tra gli ultimi anni della guerra fredda e i primi del terrorismo globale, lo spionaggio è diventato di massa. Da una lato perché restano in circolo una massa di dati sconfinata, oltre che inutile, e le tecnologie un tempo esclusive diventano di pubblico dominio, dall’altro perché in nome della lotta al terrorismo si torna a erodere spazi di privacy, in nome della sicurezza. Lo spionaggio diventa quasi una pratica privata, con la tecnologia intercettante a portata di tutti e un consumo quotidiano di informazioni anche sensibili, per fini commerciali, come è il caso di Echelon. La deriva del Kgb, nell’accumulare informazioni che poi non sapevano gestire l’ha raccontato splendidamente il film “Le vite degli altri” di Floria Henckel Von Donnersmarck. C’è un eccesso di informazione, e un difetto di scopo. Vengono usate per interessi personali per piccoli ricatti. In Italia tutt’oggi si spendono moltissimi soldi per le intercettazioni. Al di là o al di qua della naturale funzione di controllo e sicurezza, o della sua perversione in ricatto personale, l’intercettazione oggi è diventata soprattutto un genere letterario di largo consumo. Ogni mattina, sui quotidiani, compaiono i dialoghi intercettati di personaggi famosi che vengono letti con avidità come un tempo si leggevano i romanzi d’appendice. Sarò vero, allora, quanto scriveva Nabokov, l’autore di Lolita, in “L’occhio”?
 
“Ho capito che l´unica felicità a questo mondo sta nell´osservare, spiare, sorvegliare, esaminare se stessi e gli altri, nel non essere che un grande occhio fisso, un po´ vitreo, leggermente iniettato di sangue.” Sembra l’occhio mongolfiera di Redon. Giustamente, Marco Filoni, nella postfazione a Peter Szendy nell’edizione italiana, ricorda una fulminante battuta di Giorgio Manganelli (ma l’ha scritta o qualcuno che l’ha sentita l’ha riferita?): “Quest’anno il telefono si porta all’italiana, con la cimice!”.
 
Pubblicato sul numero 44 della rivista Formiche (Marzo del 2010)


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