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Tangentopoli. La corruzione in Italia venti anni dopo

Siamo o no più proni alla corruzione di altri paesi avanzati? Stando all’ultima graduatoria stilata dall’autorevole Transparency International si direbbe di sì. Sulla base di una rilevazione campionaria, in cui si chiedeva agli intervistati tra l’altro se avessero pagato nel 2010 una tangente, l’Italia si colloca al 67o posto, dopo paesi come Macedonia, Croazia, Tunisia, Lettonia e tutti i paesi più avanzati dell’UE. All’opposto il Regno Unito sta in 20° posizione, a grande distanza in termini di punteggio.
 
Partendo da questo confronto e guardando alle normative nazionali dei due paesi, recentementensi è tenuto a Roma uno stimolante convegno sui due approcci alla lotta al fenomeno, su iniziativa di una delle maggiori società di consulenza al mondo e con il patrocinio della diplomazia di sua maestà britannica. Sede maestosa, linguaggio ovattato, relatori di calibro di entrambi i paesi, folto pubblico, vivace dibattito e uno stuolo di avvocati pronti a spiegare alle imprese come essere in regola con le norme. Dato l’argomento scottante specialmente in un periodo in cui si compra e si vende di tutto, la cautela nell’abbordare il tema era d’obbligo, ma le novità sono venute ugualmente a galla e appaiono di grande interesse.
 
Prima fra tutte, negli ultimi due anni i progressi fatti dall’Italia nel contrastare il fenomeno sono molto importanti, col risultato che è aumentata la fiducia nel nostro sistema economico. Le denuncie di reato in questo campo sono salite di circa il 226% e il contenimento della corruzione è migliorato al punto che in alcune regioni la performance italiana uguaglia quella delle migliori aree europee. Va detto, inoltre, che la metodologia usata da Transparency non è tale da consentire un’attendibile comparazione tra paesi, come ha riconosciuto lo stesso OCSE, che è l’organismo internazionale dove un apposito gruppo di lavoro attua un monitoraggio della situazione nei maggiori paesi industriali.
 
La percezione diffusa nel nostro Paese è nondimeno che vi sia una corruzione dilagante e molto più intensa che tra i nostri partner, in ciò alimentata dall’amplificazione che i media fanno di ogni caso che viene portato alla luce. Eppure i dati non giustificano questa impressione; anzi, la smentiscono. L’Italia ha di recente accresciuto il rigore delle sue norme volte a prevenire e sanzionare, ed in effetti nel confronto con il Regno Unito si presenta con una normativa molto più stringente, con modelli organizzativi all’interno delle imprese più pervasivi per ridurre all’origine occasioni per atti del genere, e con una sempre più efficace azione di contrasto, che in termini di statistiche di denuncie e condanne allinea il Paese sui livelli dei maggiori partner.
 
Ma bastano questi progressi per assicurarci che il fenomeno tenderà a ridursi, o che sia già sotto controllo? Pur di fronte ai buoni risultati, qualche perplessità resta. Le statistiche sui reati mal si prestano a misurare un fenomeno che per sé stesso si cela nell’oscurità, che si annida anche nei comportamenti di politici con pochi scrupoli, che trova spazio in una pubblica amministrazione poco attenta a perseguire il benessere collettivo, che vede imprenditori pronti alle scappatoie per non dibattersi nelle pastoie di una normativa asfissiante e di una burocrazia indifferente se non famelica, che si diffonde in una società che non ha nemmeno chiari i confini stessi di ciò che sia corruzione, né le sue gravi conseguenze. In particolare, molti non sono consapevoli che essa pregiudica seriamente le possibilità di espansione dell’economia e del benessere sociale, e mina alla base il principio di legalità su cui si regge la società civile.
 
Nessun sistema normativo, per quanto sia perfetto ed efficacemente applicato, potrà mai contrastare la corruzione se il contesto socio-economico si qualifica nei termini descritti, creando un humus favorevole. Perché abbia successo quel sistema va piuttosto inserito in un programma più ampio, diretto ad aggredire all’origine le cause del fenomeno.
 
La prima linea di attacco sta proprio nella cultura sociale delle fasce più ampie della popolazione, come delle elite, educandole sin dalla giovane età ad aborrire queste pratiche e a condannarle nel sentire sociale prima ancora che nei tribunali. Ben vengano quindi le iniziative di alcune associazioni che stanno sviluppando appositi programmi educativi nelle scuole.
 
Bisogna poi ridurre le occasioni per pratiche corruttive. È noto che queste maturano laddove vi siano troppe regole, o si affidi a un funzionario, non solo pubblico, un potere monocratico in cui può esercitare discrezionalità e non è chiamato a risponderne in maniera stringente. Pertanto, occorre un’economia meno regolamentata e più liberale ed aperta alla concorrenza, più condivisione tra soggetti nell’esercizio del potere d’intervento nelle attività economiche, più monitoraggio dei comportamenti nella PA, più chiarezza nella condanna sociale di ogni pratica svolta nell’interesse individuale a scapito degli altri o della cosa pubblica, più chiamate a rendere conto, e infine sanzioni ferme degli illeciti. Anche una certa omogeneità di condotta tra paesi, perché il rigore non si trasformi in svantaggio nella concorrenza sui mercati.
 
Ma in questi anni in cui la resistenza alla corruzione tende ad abbassarsi di fronte a redditi che ristagnano e a stipendi pubblici che si restringono, il principio che dovrebbe più di tutti guidare la lotta al fenomeno dovrebbe essere che bisogna fare di tutto perché la corruttela non paghi né per chi la fa, né per chi la accetta.
 
L´editoriale del direttore del Corriere della Sera: “Anni perduti scelte urgenti”
 


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