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Concorrenza: mezzo o fine?

Sono giorni a dir poco intensi per il Governo ed il Parlamento, impegnati sui tavoli delle riforme, ma mai come in questa fase si impone doverosa la riflessione sul tema della concorrenza, un termine tanto ignorato da alcuni, quanto abusato e talvolta assolutizzato come fine di ogni processo economico (e non invece come mezzo) da altri, un processo regolato a beneficio di imprese e di consumatori.
 
La sensazione è che il valore della concorrenza, e dunque l’attuazione reale dei suoi processi tipici, abbia faticato non poco a radicarsi in Italia, e che ancora molte incrostazioni e distorsioni richiedano una vera e propria rimozione. Tuttavia, preso atto della “convalescenza” concorrenziale in cui il Paese versa, è bene fare chiarezza sulle patologie del nostro Paese che non hanno permesso di garantire un mercato realmente e totalmente aperto, davvero concorrenziale, una vera e propria workable competition.
 
Di questo parleremo domani 22 marzo in occasione di un convegno dal titolo “Lo stato della concorrenza in Italia, analisi e prospettive”, organizzato dal Centro Studi Tocqueville-Acton e dall’Osservatorio Permanente sull’Applicazione delle Regole di Concorrenza, che si terrà nella suggestiva cornice della Sala dei Certosini presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri alle Terme di Diocleziano a Roma. Interverranno personalità di primo piano come il Prof. Giulio Sapelli, il dott. Antonio Pilati (già Componente dell´Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), ed il prof. Alfredo Macchiati, moderati da Marco Cobianchi.
 
L’occasione del convegno permette di riesumare il tema – temporaneamente accantonato dal dibattito pubblico – della possibile revisione dell’art. 41 della Costituzione, accusato di impostazione dirigistica e nella sostanza in contraddizione con i principi del Trattato Ue che al contrario sanciscono il principio di concorrenza in una prospettiva di economia sociale di mercato.
 
La distonia culturale sussiste, e specialmente il comma 3 riflette una visione fortemente dirigistica dell’economia. Ma facciamo chiarezza: l’art. 41 nel corso degli anni non ha ostacolato le riforme in Italia nemmeno nel passaggio cruciale dallo Stato gestore allo Stato regolatore. La storia ce lo conferma: se è vero che negli anni ´60 in nome dell’art. 41 è stata approvata una legge di “programmazione economica” di visione statalista, così 30 anni dopo è stata istituita l’Autorità Antitrust con una legge (L. 287/90) che sostanzialmente riflette i principi e le norme del Trattato sul funzionamento dell’Ue.
Non dimentichiamoci poi che oggi i giudici italiani possono applicare in via diretta le norme sulla libera concorrenza previste nel Trattato Ue.
E’ dunque maggiormente realistico ridimensionare l’art. 41 nella sua portata applicativa, dal momento che rappresenta più una norma “manifesto”, tanto rilevante quanto flessibile, la cui modifica non deve in alcun modo offuscare la necessità di riforme reali per la crescita e lo sviluppo del Paese.


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