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Esercizi liberal-keynesiani

Dopo i disastri che il pensiero liberista ha provocato, la (salutare) presenza dello Stato nell’economia non dovrebbe essere neppure argomento di discussione. Invece, nonostante l’Europa sia tuttora nel pieno della drammatica terza fase della crisi finanziaria mondiale provocata dalla deregulation, iniziata nel 2007 con lo scoppio della bolla speculativa su immobili e mutui e poi proseguita con la debacle del sistema bancario internazionale, permane una riserva mentale che fa considerare John Maynard Keynes un pericoloso bolscevico e le sue teorie – che, naturalmente, abbisognano di profondi adeguamenti alla realtà di oggi – come demoniache proposizioni di becero statalismo.
 
Invece, quello di cui abbiamo bisogno, in Italia e in Europa, è un grande progetto liberal-keynesiano. No, non c’è contraddizione in termini, anzi. Perché da un lato c’è assoluto bisogno di creare un ambiente economico libero da vincoli burocratici e fortemente competitivo (che si ottiene con la semplificazione e le liberalizzazioni) come pure meno condizionato da rigidità ed eccessi di tutele (che si ottiene con la riforma del mercato del lavoro e del sistema di welfare), cioè insomma che sia fortemente propedeutico allo sviluppo.
 
Ma dall’altro lato, c’è non meno bisogno di investimenti pubblici, specie nelle infrastrutture materiali e immateriali, e di interventi di supporto per rafforzare gli assetti azionari delle attività strategiche, dalle banche alle grandi reti (energia, trasporti, acqua, ecc.). Si tratta di investimenti per costruire e rafforzare la presenza del nostro capitalismo in alcuni settori strategici ad alta intensità di “capitale-tecnologia-innovazione” e che richiedono grandi dimensioni, che i privati non sono in grado o non vogliono fare.
 
Sia chiaro, sto parlando di investimenti in conto capitale, non di spesa pubblica corrente. Anzi, sapendo di che pasta è fatta la politica italiana – così maledettamente fotocopia di una società (in) civile sempre più egoista – è bene che essa venga ridotta (almeno di sette punti di Pil, facendola scendere dall’eccessivo 52% al più ragionevole 45%), tramite un’efficace spending review che escluda i tagli lineari per andare a incidere su sprechi ed eccessi specifici. Mentre gli investimenti, diretti e in partecipazione con i privati, gli interventi manutentivi (sia in campo idrogeologico sia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali), e l’acquisto (o il mantenimento) di partecipazioni azionarie laddove sia necessario stabilizzare gli assetti di controllo di società strategiche, sono tutt’altra cosa.
 
La vicenda delle banche è emblematica. Non appena se ne è ravvisata la necessità e l’urgenza, tutti i Paesi occidentali – e per primi quelli a maggiore tradizione liberale, come la Gran Bretagna – non hanno avuto remore a intervenire nel capitale dei propri istituti, in qualche caso nazionalizzandoli del tutto. Noi, che nel passato abbiamo usato le fondazioni bancarie per evitare che il nostro credito finisse in mani straniere – e non sempre ci siamo riusciti, vedi caso Bnl – per fortuna non abbiamo ascoltato, o quantomeno non del tutto, le sirene che volevano che quelle quote fossero cedute. Certo oggi il tema del controllo delle banche si pone comunque, visto che con le ricapitalizzazioni resesi necessarie – un po’ per ragioni di forza maggiore, un po’ per l’ottusità dell’Eba, l’Ente europeo di vigilanza – le fondazioni non ce la fanno, se non indebitandosi, oltre misura, a reggere botta. Insomma, bisogna spogliarsi delle bardature ideologiche del “pensiero unico” che ha imperversato negli ultimi due decenni, e senza per questo diventare vetero-statalisti, occorre ragionare su come lo Stato possa aiutare banche e sistema produttivo a superare il guado della crisi.
 
Come? Per intanto consiglio di leggere Sono un liberale? E altri scritti che Adelphi ha appena ripubblicato con la prefazione di un keynesiano da tempi non sospetti come Giorgio La Malfa. Il volume di Keynes ci consente di riscoprire l’economista di Cambridge, che è stato decisivo nel Novecento e che agli albori della globalizzazione è stato archiviato con troppa fretta, ma anche di capire perché in un momento in cui la crisi mondiale spinge il sistema economico planetario alla ricerca di nuovi e consolidati paradigmi, sia di grande attualità il pensiero di un liberale non liberista capace di considerare del capitalismo tanto la forza espansiva e vitale quanto i suoi limiti di ordine morale, nel momento in cui il motore che lo muove è alimentato solo dalla cupidigia del guadagno, dall’avidità e dal desiderio di accumulare ricchezza fine a se stessa.
 
Rileggendolo appaiono profetiche le critiche all’integralismo liberista della “mano invisibile” e del lassez-faire. E si capisce che se non ci fossimo ubriacati dello slogan “meno Stato, più mercato” – peraltro senza neppure riuscire ad applicarlo, in Italia – e non avessimo inteso che la sua lezione non era “più Stato, meno mercato”, come purtroppo ci hanno raccontato i marxisti di casa nostra, ma “più Stato” nel senso della responsabilità della politica di stabilire linee di indirizzo strategico del modello di sviluppo, e “più mercato” nel senso di regole stringenti e maggiori controlli, forse ci saremmo risparmiati un sacco di problemi.
 
Ma siccome nella vita non è mai troppo tardi, ecco qual è la ricetta liberal-keynesiana declinata in questo momento storico in Italia. E che può essere messa in pratica dal governo Monti. Il tema è quello di compenetrare l’obiettivo del risanamento della finanza pubblica e quello del ritorno alla crescita. Per riuscirci occorre mettere in campo, come chi scrive ha segnalato (inascoltato) in tempi non sospetti, un intervento di natura straordinaria sul debito. Sto parlando sia di un abbattimento di almeno il 20% dell’attuale stock di debito, cioè di 380 sui 1900 miliardi complessivi, per portare il rapporto debito-Pil di qualche punto sotto il 100%, sia del reperimento di 180-200 miliardi per gli investimenti di cui si è detto.
 
Come si possono incassare così tanti soldi? Attingendo al patrimonio italiano, sia quello pubblico sia quello privato. Il modo è semplice: intestare ad una società veicolo da quotare in Borsa i 700 miliardi di asset pubblici che il Tesoro stima
siano la quota parte più facilmente valorizzabile dei 1.800 miliardi complessivi conteggiati; obbligare i detentori di patrimonio privato, oltre una certa soglia e con percentuali progressive, a sottoscrivere i titoli della quotanda (una sorta di patrimoniale light); del ricavato, i due terzi vanno a detrazione del debito e un terzo a investimenti in conto capitale. Insomma, una grande operazione, ben diversa dalla politica del rigore sul deficit (inevitabilmente recessiva) fin qui seguita e ben più articolata della politica degli incoraggiamenti come è quella del decreto liberalizzazioni, dal lato della crescita.
 
Per riuscirci occorre aprire un grande dibattito, culturale prima ancora che politico, che affronti – in un Paese che nei fatti è rimasto statalista e assistenzialista, ma ideologicamente ha sposato (anche a sinistra) il “mercatismo” – il tema della ridefinizione del nostro modello di sviluppo. Se Formiche intende farlo, ne avrà il merito. Non piccolo.
 
 
 
www.enricocisnetto.it

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