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Il colonialismo del Terzo millennio

La grande corsa alle terre si è attivata da tre anni a questa parte in buona parte del sud del mondo. Milioni di ettari dati in affitto a imprenditori stranieri, aziende multinazionali, fondi di investimento per produrre alimenti o agrocarburanti destinati al nord del mondo. Il land grabbing – l’accaparramento delle terre – è il nuovo terreno di conquista di avventurieri e businessmen, di Stati ansiosi di garantire l’approvvigionamento di cibo ai propri cittadini e di finanzieri desiderosi di moltiplicare i propri profitti.
 
La corsa alle terre è la conseguenza diretta della crisi alimentare scoppiata nel 2007-2008, quando i prezzi dei generi di prima necessità – come il riso, il grano, il mais – sono schizzati alle stelle. Quell’aumento è stato in buona parte dovuto allo shock finanziario che aveva precedentemente investito Wall Street e trascinato nel gorgo le Borse di mezzo mondo. Scottati dal crollo del mercato azionario, molti investitori si sono gettati sui “beni rifugio”, come i prodotti alimentari di base, facendone volare verso l’alto le quotazioni e facendo esplodere rivolte in mezzo pianeta, dall’Egitto ad Haiti, dalla Costa d’Avorio all’Indonesia.
 
Oggi siamo di fronte a una situazione simile: i prezzi dei prodotti alimentari di base risalgono, insieme al valore del barile di petrolio. Ci sono le prime sommosse. Le stesse rivolte del Nordafrica – soprattutto quelle tunisina ed egiziana – hanno avuto tra le proprie ragioni l’aumento del prezzo del cibo. Nelle prime sollevazioni in Tunisia i manifestanti brandivano baguette. Con ogni probabilità, la “tempesta perfetta” si sta per scatenare di nuovo.
 
Se i Paesi del sud del mondo appaiono ancora destinati a esserne travolti, come testimoniano gli allarmi lanciati dalla Fao, qualcun altro sembra essersi preparato: Stati ricchi di liquidità ma poveri di cibo – come quelli del Golfo – vogliono evitare di trovarsi nella stessa situazione in cui si sono trovati nel 2008, intrappolati da bandi all’esportazione stabiliti dai Paesi da cui importavano alimenti. Hanno quindi lanciato una grande campagna di acquisizione di terre all’estero, sotto il proprio diretto controllo. Producono altrove ciò di cui hanno bisogno.
 
Al contempo, società finanziarie di vario tipo si sono gettate sulla nuova gallina dalle uova d’oro. Se il cibo è il bene su cui puntare, bisogna controllarne i mezzi di produzione, cioè in primo luogo le terre. La tempesta perfetta farà danni in molti posti, lascerà alcuni indifferenti e provocherà la gioia di altri. Ma chi sono coloro che stanno acquisendo terre in mezzo mondo? Quali sono le ragioni, le ambizioni, i calcoli che stanno dietro al passaggio di mano di milioni di ettari? Non si può nemmeno ridurre il land grabbing a un movimento di spoliazione neocoloniale messo in atto da alcuni Stati o da alcune società private nei confronti di altri Paesi dalla governance traballante.
 
Questa lettura, che pure è in parte corretta, è limitata, perché elude altri aspetti fondamentali del quadro generale, come la mancanza totale di investimenti in agricoltura nel sud del mondo negli ultimi vent’anni o le esigenze di ottenere risorse alimentari sicure da parte di Paesi dalla morfologia sfortunata, come quelli del Golfo Persico. Ma, al di là delle speculazioni finanziarie, dei facili arricchimenti e della malafede di alcuni governi corrotti che svendono le proprie risorse, sullo sfondo si affaccia una questione che è sempre più ineludibile nel nostro futuro: l’aumento della popolazione mondiale e la conseguente diminuzione del cibo a disposizione di tutti.
 
La grande corsa alle terre si nutre soprattutto di un divario di conoscenze e di mezzi, si misura e si articola nel fossato che separa popolazioni rurali che hanno vissuto per anni indisturbate sui propri campi e personaggi che arrivano dal nulla e promettono loro uno sviluppo, un accesso al benessere che non può non finire per sedurli. Con le varie sfumature che ha assunto a seconda dei casi e delle latitudini, il land grabbing è soprattutto un grande inganno nei confronti di contadini che si vedono sottrarre la terra con procedimenti d’autorità, come in Etiopia, o con trucchetti da prestigiatori, come in Tanzania.
 
Le ex colonie sono effettivamente diventate terreno di conquista di vecchie e nuove metropoli. Come ai tempi della colonizzazione, queste ultime si procacciano nei territori d’oltremare le risorse di cui hanno bisogno, prodotti alimentari per sfamare la propria gente e combustibile con cui far circolare le proprie autovetture. Di fatto, l’iniziativa messa in piedi da re Abdullah in Arabia Saudita, con le sue missioni esplorative all’estero, i suoi agenti in loco, la sua aggressiva politica di acquisizione di terre, non è paragonabile alla vecchia Compagnia delle Indie? Gli investitori che vengono a piantare jatropha in Tanzania non sono nuovi conquistadores che irretiscono i locali con la promessa di una scuola o di un ospedale? Ma il punto centrale, il fulcro della questione, è altrove.
 
Ha ragione Yefred Myenzi: i responsabili principali di questa svendita indiscriminata di terre sono i governi nazionali, che barattano le risorse del Paese per un pugno di valuta forte – o, nel peggiore dei casi, per un bonifico in dollari su un conto domiciliato all’estero. L’epoca coloniale è finita. Gli Stati sono indipendenti. Semplicemente i governi non curano l’interesse dei propri cittadini.
 
“Le future generazioni bruceranno le vostre tombe per averle lasciate senza terra”. Penso ai contadini di Muhaga. La loro popolazione crescerà: loro hanno i due terzi della terra che avevano fino a due anni fa. Non è escluso che fra un anno ne avranno ancora meno. Alcuni dei loro figli si troveranno senza possibilità di sopravvivere là dove sono nati. Forse andranno via, in città, a ingrossare il già consistente numero di quanti si arrabattano nel commercio informale. O si ridurranno a fare i braccianti a giornata per quelle stesse aziende che ora comandano sulla terra che una volta era la loro. Non so se bruceranno le tombe dei loro antenati. Ma certo ricorderanno sempre l’anno in cui l’assemblea di villaggio ha dato via la terra in cambio di niente.
 
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