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Il coraggio dell’interesse nazionale

Fino a qualche anno fa caldeggiare qualsiasi genere di intervento pubblico in economia sarebbe stato considerato eretico. Si riteneva, infatti, che la sacralità del mercato, luogo ideale di allocazione di risorse, non dovesse essere scalfita dall’ingerenza di interventi esterni che ne avrebbero corrotto e sporcato l’efficienza allocativa.
 
La stessa nozione di Stato appariva ormai desueta, ottocentesca, in contrapposizione alla modernità del mercato. Insomma, la contrapposizione Stato-mercato, o se vogliamo diritto-economia, sembrava risolversi ineluttabilmente in favore del mercato. La mano invisibile dell’economia, una sorta di Provvidenza laica, sapeva premiare il merito, mentre la mano visibile dello Stato generava inefficienze.
 
Poi è intervenuto il vento fresco della globalizzazione e con esso il tracollo economico delle economie occidentali, e sono emersi implacabili tutti i limiti della libertà di mercato, tanto da indurre alcuni a rimpiangere i tempi in cui gli Stati erano forti ed intervenivano direttamente nei rapporti economici, con funzione di indirizzo, programmazione e a volte anche intervento diretto.
 
Insomma, il dato empirico ha insegnato che la libertà nel campo economico è degenerata nel caos, facendo venir voglia di ripristinare un ordine economico, giuridico e valoriale. Ma il ripristino dell’ordine richiede la cogenza e quindi la forza del diritto. E poiché il diritto promana dalle istituzioni pubbliche, nazionali o sovranazionali, ci tocca rispolverare dalla soffitta quello che sembrava un vecchio arnese superato, ossia lo Stato, archetipo nato con il Trattato di Westfalia del 1648 e che, con alterne vicende, rimane oggi l’unico baluardo contro le crisi e a tutela dell’interesse pubblico. Occorrerebbe quindi, senza rinunciare alla centralità del mercato, avviare delle riflessioni filosofico-economiche su quale possa essere il ruolo dello Stato nella società del XXI secolo.
 
In questo contesto di rivitalizzazione dell’istituzione statale non potrà pertanto apparire come irrituale qualsiasi tipo di intervento pubblico ritenuto idoneo per correggere le storture del mercato, ivi incluse alcune misure drastiche, come le nazionalizzazioni di imprese private.
 
Si tenga infatti presente che sul piano giuridico un’eventuale nazionalizzazione di un’impresa privata è del tutto ammissibile. L’articolo 43 della Costituzione, norma che sembrava caduta nel dimenticatoio, lo consente, sempre compatibilmente con il quadro normativo comunitario.
 
Ecco allora che gli spazi per eventuali nazionalizzazioni iniziano a far capolino. Sotto il profilo del soggetto nazionalizzante, non è detto che questi sia necessariamente lo Stato. E allora non dovremmo più parlare di nazionalizzazione quanto di pubblicizzazione. Si pensi alle Regioni, o ai Comuni o ad altri Enti pubblici che intendano partecipare attivamente a un’attività di mercato per salvaguardare un interesse pubblico (vedi il dibattito politico di questi ultimi mesi nell’ambito della Regione Toscana o del Comune o della Provincia di Siena in merito all’opportunità di acquisire la partecipazione di maggioranza nel Monte dei Paschi di Siena).
 
Dal punto di vista dell’interesse pubblico che giustifica l’attrazione di un soggetto pubblico nell’area privata questo può essere di varia natura. Può infatti consistere nella volontà di tutelare una fascia di consumatori socialmente deboli, ai quali fornire un bene o un servizio a prezzi sociali; oppure in quello di tutelare le esigenze dell’economia locale, impedendo che soggetti economici rilevanti sul piano territoriale possano essere acquisiti da soggetti privati non legati al territorio; più in generale ogni qual volta si ritenga che un determinato settore debba essere sottratto agli appetiti privatistici.
 
Il grande equivoco degli anni ‘90 è stato quello di ritenere che la privatizzazione di soggetti pubblici fosse sempre e comunque la migliore soluzione possibile in quanto consentiva di superare le inefficienze pubbliche, nella speranza di ottenere un servizio più conforme ai canoni di mercato. In realtà il dato empirico ha dimostrato che spesso l’aumento di efficienza del servizio privato è stato neutralizzato, in termini di costi-benefici, dalla presenza dell’interesse privatistico del nuovo proprietario e quindi dal fine di massimizzazione degli utili.
 
Esaminiamo due casi concreti. Il primo riguarda il già accennato problema del credito. È notoria l’insofferenza attuale del ceto imprenditoriale nei confronti del sistema bancario che ha chiuso i rubinetti del credito alle piccole e medie imprese. Ciò a lungo andare può nuocere alla competitività del nostro sistema produttivo. In tale contesto non ci si stupirebbe di fronte ad un provvedimento di nazionalizzazione di un istituto di credito, al fine di erogare credito e raccogliere risparmio, senza finalità di lucro per l’istituto ma con il fine di fornire servizi bancari con una finalità sociale (come ad esempio un conto corrente gratuito agli ultrasessantacinquenni indigenti).
 
Un secondo esempio riguarda la gestione del mercato finanziario italiano, attribuito a Borsa italiana, ente pubblico che dal 1998 è stata trasformata in società per azioni privata e dal 2007 è caduta in mani straniere, essendo stata acquistata dal London Stock Exchange. Ebbene, a 14 anni dalla privatizzazione di Borsa italiana il giudizio su quest’operazione non può essere positivo, considerata la scarsa qualità di società emittenti che negli ultimi anni sono state quotate nonché il saldo tra listing e delisting, negli ultimi anni spesso a vantaggio dei delisting.
 
Chissà se un giorno vi sarà un governo coraggioso, impermeabile alle sirene promananti dalle lobby private, bancarie e non, straniere e domestiche, capace di prendere atto del fallimento di alcune privatizzazioni, realizzate “a prescindere”, dando spinta a un processo di ripubblicizzazione nei settori dove il privato non si è dimostrato compatibile con il perseguimento di un interesse pubblico rimasto incustodito.


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