Il 67% della superficie terrestre è coperta dalle acque, ma il 33% della popolazione mondiale vive in aree dove la disponibilità idrica è scarsa. Ovvero, la massima densità di popolazione ha, statisticamente, la minore disponibilità di acqua, e viceversa. Se si pensa che, come affermano gli esperti di statistica storica, l’inizio dell’aumento rilevante della speranza di vita in Europa è iniziato con la diffusione dell’acqua potabile a basso prezzo, si può intuire quanto questa condizione del Medio Oriente e del resto dei Paesi in via di sviluppo in Africa e Asia sia potenzialmente distruttiva per le popolazioni locali e, in prospettiva, per il resto dell’umanità. Il problema è che, nei Paesi nei quali l’economia è fondamentalmente agricola, si ha la massima carenza di acqua e, paradossalmente, la maggiore necessità di essa, dato che l’agricoltura è una attività ad altissimo costo idrico.
In questo contesto, l’agricoltura drena risorse per la sopravvivenza idrica della popolazione, con il 90% delle risorse idriche dell’area già scarse destinato ad essa rispetto al 10% che viene utilizzato per la nutrizione, l’igiene e il ricambio idrico corporeo. Sulla base dei calcoli più recenti, la media dei 1500 metri cubi/persona/anno dovrebbe addirittura calare a 500 metri cubi/anno per ogni abitante dell’area. Gli assi delle riserve idriche in tutto il Medio Oriente, e in particolare nel triangolo Turchia-Siria-Iran, sono il sistema Tigri-Eufrate, il Litani, l’Asi, il Nilo e la Draa.
Il sistema idrico dell’area mediorientale, collegato a quello del Golfo Persico e dell’Asia centrale, sarebbe quindi, a parte le questioni politiche e i trattati bi e multilaterali, potenzialmente capace di rifornire acqua sufficiente alla popolazione locale.
Nell’area dell’Estremo occidente, nel Maghreb marocchino, si situa invece il corso della Draa, altro asse della fornitura idrica per le popolazioni arabe. Ci interessa, e ne parleremo, perché è anch’esso un sistema idrico che è insieme confine e oggetto di contesa tra varie aree: il Marocco, il Fronte Polisario e del Rio de oro, le tribù migranti che passano tradizionalmente nell’area del bacino della Draa.
Il Firat-Eufrate è lungo 2930 chilometri, il Tigri è invece lungo 1840 chilometri e le terre irrigate dai due corsi d’acqua sono per 765.831 chilometri quadrati con una densità media di 58 per km. quadrato. È questo l’asse nel quale si sviluppano le tensioni e i progetti geopolitici della Turchia, che è il Paese di origine di entrambi i fiumi che definiscono la Mesopotamia, della Siria, che ha una economia agricola fortemente dipendente dal flusso del Tigri, dell’Iran, che è alle prese con una sensibile carenza idrica per la sua agricoltura, e dell’Iraq, che è anch’esso alle prese con una doppia assenza di acqua, per la salute umana e per le coltivazioni.
La tensione geopolitica su questo asse inizia, o meglio si precisa, con la fondazione del Southeastern anatolia development project, il Gap in sigla turca, che progetta la costruzione di 22 dighe e 19 strutture per l’energia idroelettrica, oltre ad un tunnel per far arrivare le acque del Tigri e dell’Eufrate verso l’Harran, al fine di irrigare 1,7 milioni di ettari. Interessa 9,5 milioni di abitanti dell’area e intende, come le operazioni similari, ma meno imponenti, che ebbero compimento in Europa occidentale nell’Ottocento, stabilizzare le popolazioni residenti e equalizzare, oltre che elevare, i redditi delle zone interessate a questo progetto. Chi si occupa di economia delle strutture idriche, o di sviluppo che oggi si definisce “responsabile”, cerca sempre di evitare che, con le infrastrutture idriche, le popolazioni tendano a trasferirsi in massa da una zona a un’altra e a divenire, da produttori di surplus agricolo, fruitori di aiuti economici internazionali, che sono sempre collegati a condizionamenti strategici e geopolitici. Era la finalità anche della Politica agricola comune della Comunità europea, che fu alla base (e che assorbe il 34% delle entrate della Ue) dell’accordo politico tra i contraenti del Patto di Roma. Lo scontro bilaterale tra Usa e Urss, all’epoca, sembrava limitare le possibilità e le risorse finanziarie da destinare all’acquisto dei prodotti alimentari nel mercato-mondo, e allora la Cee si fece carico di un protezionismo multilaterale per garantirsi le derrate essenziali anche in caso di scontro finale tra le due superpotenze.
Un progetto che, mutatis mutandis, è all’origine dell’idea turca del Gap: stabilizzare le masse di quell’area, controllarne la territorialità geopolitica, evitare la dipendenza alimentare e gli shock asimmetrici, finanziari o militari, che inevitabilmente accadrebbero se si ponesse la sopravvivenza alimentare della propria popolazione in mano ai mercati globali, nel caso di un conflitto conclamato o di una tensione regionale. La geopolitica delle acque è: a) sostitutiva, poiché i player regionali vedono nella regolazione del regime delle acque la possibilità di radicare nell’agricoltura “masse pericolose” altrimenti destinate a portarsi nelle periferie delle grandi città, con evidenti effetti esplosivi sul piano politico e economico, visto che il welfare è pressoché inesistente nell’area mediorientale, con l’eccezione di Israele, b) può fare leva sull’autonomia alimentare, asse della stabilizzazione del commercio con l’estero di quei Paesi e alternativa ai cicli del petrolio e del gas, c) permette una ridefinizione dei confini post-coloniali, che in nessun caso sono ormai accettabili per i Paesi arabi del grande Medio Oriente, d) permette, in collegamento con l’acqua agricola, la trasformazione dei consumi elettrici interni dal petrolio e dal gas naturale verso l’idroelettrico, il che permette una maggiore quantità di export di idrocarburi disponibile e un minore peso dei sussidi per le benzine alla popolazione, e) è uno strumento di guerra asimmetrica nei confronti dei vicini più riottosi ad accettare nuove o antiche egemonie regionali, f) permette una minore attivazione degli aiuti internazionali a quei Paesi, il che consente una diversa collocazione del Medio Oriente arabo nel mercato-mondo e una migliore ragione di scambio per tutti i prodotti dell’area, compresi quelli petroliferi.
Il costo del gap è di 36 miliardi di nuove lire turche, di cui 21 già spesi alla fine del 2005. Ovvero 32 miliardi di Usd, di cui 17 già investiti nel momento in cui scriviamo.
Sarà questa struttura una nuova fonte di tensioni nell’area mediorientale? La Turchia utilizza le acque del Tigri e dell’Eufrate in quanto i due fiumi hanno origine sul suo territorio, ma certamente l’Iraq, la Siria e l’Iran si trovano in difficoltà per questa scelta del governo di Ankara, e la tensione non può non riflettersi sull’asse del confronto primario in Medio Oriente, quello tra Israele e i Paesi arabo-islamici confinanti. La Turchia, infatti, contribuisce per il 98% all’acqua potenzialmente trasportata dal Tigri, mentre la Siria compone il 12% del totale (l’acqua potenziale è ben diversa, come si può facilmente immaginare, da quella realmente trasportata) ma con fiumi come il Khabur e il Balikh, che nascono comunque in territorio turco.
La Siria intende usare le acque dell’Eufrate per irrigare 240mila ettari di campi, soprattutto per le acque che vengono raccolte dalla Diga di Tabqa, che ha generato il Lago Assad, finanziato prima dalla Germania Occidentale con la banca di affari fondata da Hjalmar Horace Greely Schacht, l’ex ministro delle finanze di Hitler e poi, nel 1965, dall’Unione Sovietica. Si tratta di acque che arrivano in gran parte in Iraq. Attualmente, per i suoi bisogni agricoli e energetici, la Siria fornisce acqua all’Iraq per sette dighe in funzione, Haditha, Baghdadi, Ramadi, Hindiya, Fallouya, Hammurabi. Per l’Iraq, che ha avuto il peggior raccolto agricolo della sua storia recente nel 2009, la Turchia predispone una politica di accordi bilaterali, senza il nesso strategico con la Siria, e non vuole accordi stabili sulla questione delle acque, che è una carta strategica essenziale per la proiezione di potenza turca.
Ogni Paese dichiarerà indipendentemente dagli altri due, richieste che saranno calcolate sulla base dei flussi stagionali dei fiumi in questione, se invece la domanda di acqua di ogni singolo Paese eccede quella prevista, allora la quota trasferita al Paese in deficit idrico sarà ripartita proporzionalmente tra gli altri due Stati. La Turchia risponde che essa è stata, sempre con una formula del diritto internazionale, la “prima a sviluppare” la rete di dighe e di distribuzione delle acque dei fiumi mesopotamici, e quindi non può essere trattata alla pari degli altri due Stati riparii. In alternativa, Ankara ha offerto a Siria e Iraq un piano a tre stadi che comprende: a) lo scambio e la raccolta di dati sul carico dei fiumi e delle precipitazioni, b) la verifica dei dati raccolti, c) il calcolo delle necessità di utilizzo delle acque ai vari punti di snodo delle stazioni di ricerca e controllo idrico, per determinare il flusso, le necessità e soprattutto le perdite del sistema idrico mesopotamico. Sul piano geopolitico, se la Turchia riesce a gestire a suo favore la questione idrica del Tigri e dell’Eufrate, avrà raggiunto questi obiettivi: 1) avrà un droit de regard sui suoi confini orientali e settentrionali, chiave per la sua espansione nell’area dell’Asia Centrale e per la realizzazione del suo progetto panturanico di riunificazione sotto Ankara delle numerose popolazioni di ceppo turco dall’Anatolia fino ai confini cinesi, 2) potrà controllare meglio i confini per la definitiva risoluzione della questione curda, i “turchi delle montagne”, come li chiama eufemisticamente la stampa di Ankara, 3) potrà avere profondità strategica ad est e a nord, senza caricare di troppe issue la sua relazione con la Nato e permettendo una diversa forma di relazione sia con l’Iran e la Siria sia, a sud, con l’area dominata dall’Arabia Saudita, della quale raggiungerebbe lo stesso peso strategico e volume geopolitico, 4) potrà arrivare a contatto con le economie petrolifere dell’Asia Centrale e divenire il loro pivot naturale per l’esportazione del loro petrolio e del loro gas naturale. Naturalmente, la sedentarizzazione di vaste masse periferiche, che potrebbero premere sul sistema metropolitano turco, è un ulteriore asset per Ankara.
Diverso è il problema delle acque per l’Iran, che ha una geopolitica ormai proiettata sul Golfo Persico e sulla stabilizzazione, in funzione antisraeliana ma non solo, dell’asse siriano-libanese che è tributario di Teheran. La Repubblica sciita ha una superficie di 165 milioni di ettari, solo metà dei quali sono coltivabili; 11,5 milioni di ettari sono coltivati stabilmente, dei quali 3,5 sono stati irrigati da strutture stabili fin dal 1987, e il rimanente basa la sua fertilità sulle precipitazioni pluviali. Il problema, per l’Iran, è l’asimmetria tra le varie aree per la distribuzione delle acque fluviali, provenienti soprattutto dal Khuzestan e dai Monti Zagros, e che permette una agricoltura a rilevante valore aggiunto e moderna nelle aree vicine al Golfo Persico, mentre le attività agricole delle zone interne sono, ancor oggi, strettamente legate ad un ciclo di sopravvivenza, con la sola eccezione della coltivazione del pistacchio, monopolio di fatto della famiglia di un noto leader clericale della rivoluzione khomeinista.