Oggi ho ricominciato a insegnare dopo un po’ di tempo. 300 persone in aula, primo anno, belle facce, attente. Io felice. Ma soprattutto dovrebbero essere felici loro, e non perché sono il loro professore ma perché studiare all’università porta ad una vita di felicità. E non solo per i maggiori salari che gli spetteranno.
Uno studio condotto negli Stati Uniti, riporta la felicità dichiarata da persone tra i 25 e 40 anni, anzi la percentuale di persone che si dichiarano felici o molto felici una volta che abbiamo tenuto conto di tutti i fattori possibili meno reddito familiare e titolo di studio.
A parità di tutto – compreso il reddito – tra i diplomati troviamo il 4% in più di individui felici che tra quelli non diplomati e tra i laureati il 2% in più dei diplomati. Insomma una felicità non dovuta a nient’altro che al mero fatto di essere stati all’università, anche se non se ne ricava nulla in più in termini di euro.
E’ felicità che deriva dal vivere in un ambiente di lavoro più stimolante, più sicuro, più prestigioso? Sì, ma non solo. Come riassumono bene Philip Oreopoulos e Kjell G. Salvanes, economisti di Toronto e Bergen nel loro saggio Priceless: The Nonpecuniary Benefi ts of Schooling. Affina, l’andare all’università, il pensiero critico e le abilità sociali, compresa quella di fare un matrimonio non sbagliato (meno divorzi), essere un genitore meno violento, adottare scelte oculate come curarsi meglio, essere meno impazienti. E fidarsi più del prossimo. Tutti fattori di felicità. L’istruzione ci insegna a goderci nuovi piaceri di cui non avremmo saputo nulla se non avessimo frequentato l’università.
Rinunciare all’università significa rinunciare a vivere in un ambiente unico dove imparare a discutere, a condividere, a conoscere, a apprendere. A apprendere che esiste un mondo incredibilmente diverso da quello in cui siamo sempre vissuti, da apprezzare. A apprezzare la diversità.
Ecco cosa dovrebbe spingere i nostri Governi a far nascere 1000 fiori di università in tutta la penisola, fiori di serra e fiori di campo, dove ospitare i tantissimi giovani appena usciti dalla scuola, incerti e un po’ persi.
Così da far sì che si instauri anche un nuovo patto intergenerazionale tra padri e figli. E’ noto infatti che molti genitori non dirigono i loro figli verso l’università ma verso il lavoro perché loro stessi non l’hanno frequentata.
E allora penso a quel ragazzo che ha preso un 80 su 110 all’università, rinunciando a lavorare per 3 anni. Non lo farà guadagnare molto di più, questo 80 su 110, di quanto non avrebbe guadagnato senza andare all’università, è probabile. Ma … Ma….
Ma rinunciare all’università significa rinunciare a una maggiore probabilità che tuo figlio tra 30 anni ti guardi dall’alto del suo 110 e lode e tu che fiero benedici – dalle lacrime di gioia che ti scorrono dentro come padre – quell’80 che hai preso quel giorno di tanti anni prima, che ti ha permesso di capire quanto sarebbe stato importante non ostacolare il suo talento chiedendogli di lavorare. Di capire la diversità.
Come dicono Oreopoulos e Salvanes prendendo a prestito da una famosa pubblicità di carte di credito, “Priceless”.