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Benvenuti al nord

Il problema della Lega è che oggi potrebbe vincere un referendum nazionale sulle pensioni ma perderebbe, non solo oggi, quello secessionista, anche se convocato nelle tre regioni cisalpine (Piemonte, Lombardia e Veneto). E non perché la Padania non esista, ma perché nemmeno i padani puntano all’autodeterminazione. Se si vuole fare una riflessione sul futuro politico del nord dell’Italia – sempre che ne abbia uno diverso e distinto da quello del resto del Paese – non si può prescindere dallo strologare sul futuro della Lega. Non perché abbia due governatori su tre in quella particolare macroregione, ma perché dati elettorali alla mano resta la forza di maggioranza relativa, la più concentrata in quei territori, la più radicata.
 
È pur vero che la Lega di oggi mostra i segni della sua complessa eredità plurale, che solo il carisma e l’imprenditorialità politica di Umberto Bossi avevano fatto declinare al singolare. La Lega nasce “leghe”, e lì finirebbe per tornare se la politica italiana di oggi non avesse ancora bisogno di un antagonista che viene dal nord. Il “se” è d’obbligo, visto che, ormai ininterrottamente dal 1994, l’Italia ha un presidente del Consiglio nato a nord dell’Appennino tosco-emiliano, tranne la parentesi dalemiana nella legislatura 1996-2001. Ha poco senso disquisire se sia più padano un Romano Prodi – per il concetto di Padania della Fondazione Agnelli, non della Lega, è sicuramente attribuibile anche a lui l’aggettivo che tanta stampa superficiale e preconcetta ritiene inesistente – o un Mario Monti. Sia Prodi sia Monti rappresentano un tipo di nord. Due tipi umani e sociali del nord (più da integrato esponente delle partecipazioni statali alla romana il primo, più da rappresentante del lobbismo europeo il secondo) che hanno contribuito a ridurre non di poco la strisciante e in certi momenti ingombrante “questione settentrionale”.
 
La Lega sta subendo più il nordismo “british” alla Monti di quello “bauscia” brianzolo di Silvio Berlusconi. La cifra imprenditoriale prima e politica poi, hanno fatto di Berlusconi più un campione (o un caso) nazionale, che un rappresentante del nord, a dispetto dei suoi natali e delle sue principali residenze aziendali. E infatti il leghismo di opinione si era diffuso ed era cresciuto nelle aree deluse dal Berlusconi poco liberista, e troppo protagonista. La cultura del nord ama le leadership grigie, in loden. Gli eccessi di Bossi sono ammessi finché c’è qualcuno che raccoglie i cocci, spazza il pavimento e rigoverna la cucina, arieggiando la casa. I professori al governo – più Monti che Prodi – sono ben visti al nord. Sempre. A condizione che facciano. La nevrosi del fare è un tratto sociale e psicologico, oltre che economico, indifferibile per chi abita e opera (appunto!) a nord o nei dintorni del Po. Pragmatismo, quel senso del negoziato finalizzato alle decisioni, non fine a se stesso, quella laicità disposta a tutto, persino a farsi religiosa (meriterebbe misurare meglio e più a fondo il modello ambrosiano: l’alto funzionario dell’Impero che si fece vescovo, non viceversa) sono il tratto distintivo del nord.
 
Le pieghe della politica di attualità sono di più difficile lettura: il Piemonte tra Bresso e Cota è cambiato molto? È più politica nazionale che territorio. Torino, ieri con Chiamparino e oggi con Fassino, è rimasta impermeabile alle sirene leghiste. Più o meno come è accaduto a Milano, dove tuttavia la complessità è forse un po’ più complessa. Non c’è solo la differenza tra il capoluogo/capitale e le province, ma c’è almeno l’influenza del peso di una comunità profondamente collegata alle radici dell’impegno religioso. Il senso della fine imminente dell’impero del celeste Formigoni coincide con l’arrivo sulla cattedra di Ambrogio di un altro figlio spirituale del prossimo beato Luigi Giussani. Il cardinale Angelo Scola come eserciterà il ruolo dell’arcivescovo dei milanesi e della più grande diocesi del mondo? I destini del nord si incrociano a Milano anche con i nuovi equilibri della Chiesa italiana e con quelli della Fondazione Toniolo (che determina i destini della Università Cattolica), tornando a rinsaldare il futuro del nord del Paese con il Paese stesso.
 
E il Veneto? Beh, il Veneto è tutta un’altra cosa. Da sempre. L’autonomismo con ambizioni secessioniste abita qui. Non da oggi. Ma rispetto a ieri questo è l’unico territorio del nord in cui il sentimento sul futuro proprio e del proprio Stato è evoluto nell’opinione e nel consenso. L’elezione quasi plebiscitaria del governatore Luca Zaia è stata preceduta e accompagnata da uno spirito irredentista per nulla nascosto, anche a livello di molti autorevoli esponenti dell’imprenditoria locale.
 
D’altronde la Liga veneta aveva preceduto – e di molto – la nascita della Lega lombarda di Bossi. L’annessione in quella formula imprenditoriale che è stata la Lega nord riuscì solo grazie alla litigiosità dei municipi veneti. Questo mosaico regionale lo si vede anche nella filigrana post-leghista, dove il sindaco di Verona, Tosi, è mal sopportato da tutti, veneti e lombardi, benché amato dai suoi veronesi; e dove il sindaco di Padova, Zanonato, è stato più volte tacciato di leghismo, pur essendo un solido rappresentante del centrosinistra.
 
Insomma per paradosso l’unica regione dove potrebbe vincere un referendum autonomista (e forse persino secessionista) è quella in cui nemmeno la Lega vorrebbe farlo, per assoluta impossibilità di controllo. La tanto discussa e analizzata transizione del dopo Bossi è oggi politicamente sempre meno rilevante proprio per la manifestazione crescente di un altro nord, non mediabile tra le spinte centrifughe venetiste e quelle centripete di tutto il resto di un settentrione che si sente fortemente a Roma (benché non romanizzato). L’opposizione leghista diventa un’opposizione nazionale, non territoriale, che sul territorio può creare vantaggi di consenso, ma di breve periodo. Il governo del Presidente (come è stato più volte etichettato) ha compiuto il miracolo delle lunghe celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Il Paese non è forse mai stato così unito. Si sa, le crisi uniscono. Questione cattolica e settentrionale sembrano uscite dall’agenda delle priorità. L’eredità della Lega sembra destinata a restare solo quella che la politica nazionale non saprà sottrarle.


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