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La congiura degli irresponsabili

Nel settembre del 2008, Lehman Brothers, la quarta banca d’affari degli Stati Uniti d’America, presentava istanza di ammissione alle procedure previste dal Chapter 11 della legge fallimentare statunitense. Nello stesso giorno, l’indice Dow Jones chiudeva in ribasso di 500 punti con un tonfo pari solo a quello registrato l’11 settembre del 2001. Nell’agosto del 2011, Standard & Poor’s declassava il debito Usa. Pochi mesi dopo, i colpi di scure delle agenzie di rating si abbattevano anche sui debiti sovrani di Spagna, Italia e Francia. Episodi accaduti in tempi e luoghi diversi. E purtuttavia legati da un fil rouge: la crisi originatasi negli Usa al susseguirsi delle insolvenze sui mutui subprime e quella del debito sovrano in grandi Paesi democratici come Italia e Grecia sono due facce della stessa medaglia. È l’intero sistema, infatti, a essersi ammalato. La malattia è endemica; il germe comune. Risiede nell’irresponsabilità, conclamata, che è dilagata a ogni livello.
 
Nella finanza privata, le tecniche di cartolarizzazione dei crediti hanno consentito di allontanare il rischio (legato all’insolvenza del debitore) dal soggetto che lo aveva generato: erogando mutui (a basso merito di credito) alle famiglie, le banche hanno originato crediti senza mantenerli in bilancio. Li hanno infatti trasferiti a società che li hanno acquistati con i fondi raccolti attraverso l’emissione di strumenti finanziari (Cdo – Collateralized debt obligations; Abs – Asset backed securities, ecc.) collocati presso investitori istituzionali e non. Così, attività illiquide sono state trasformate in titoli facilmente negoziabili; il rischio del credito è stato nascosto in prodotti finanziari complessi e opachi. E quando questi ultimi sono stati collocati sul mercato dei capitali, quello è stato trasferito su terzi attratti dagli elevati rendimenti, ma ignari del livello di rischio assunto. In questo modo, universalità e irresponsabilità – come nota Giulio Tremonti nel fortunato libro La paura e la speranza del 2008 – sono diventati i caratteri essenziali della “megabanca”, un tipo d’industria assolutamente nuovo.
 
D’altra parte, i più diffusi sistemi di remunerazione incentivante hanno finito per de-responsabilizzare i manager inducendoli a scommettere sui titoli tossici legati alla concessione dei mutui subprime anche al prezzo di pregiudicare gli interessi di shareholder e stakeholder e di compromettere la stabilità del sistema finanziario mondiale. È cioè accaduto che, in un periodo di congiunture economico-finanziarie favorevoli, l’asimmetria tra le possibilità di arricchimento (potenzialmente illimitate) e quelle di perdita (concretamente insussistenti) ha incoraggiato i beneficiari di stock option e bonus ad assumere rischi che le singole imprese, nel lungo periodo, non sono riuscite ad assorbire e hanno anzi riversato su di un sistema rivelatosi incapace di sostenerli. I manager degli istituti di credito hanno impiegato fondi pervenuti nella loro disponibilità con contratti di deposito fiduciario in scommesse prive di alea perché garantite dal capitale di rischio e di debito della banca e quindi, da shareholder e stakeholder; scommesse con un rischio pari a zero per lo scommettitore, ma praticamente incalcolabile per azionisti, depositanti, lavoratori e risparmiatori. E se stock option e bonus hanno slegato l’opportunità di guadagno dal rischio di perdite, queste ultime, poiché nelle banche il rapporto tra capitale di rischio e capitale di debito è fortemente sbilanciato a favore di quest’ultimo, sono ricadute quasi interamente sugli stakeholder.
 
Paradossalmente, ad aggravare la situazione hanno contribuito anche i governi nazionali. Quando infatti, la mano pubblica è intervenuta per evitare il fallimento, l’acquisto di titoli tossici e così via, nei fatti, si è determinato un trasferimento della responsabilità per i debiti generati dalle imprese private sulla collettività: le perdite conseguenti a scelte di gestione dissennate non hanno investito i manager, ma gli azionisti, i depositanti, i lavoratori e in ultima analisi, il pubblico dei risparmiatori e la generalità dei contribuenti. Non stupisce, quindi, che i governi siano stati accusati di aver salvato i colpevoli piuttosto che soccorrere le vittime.
 
Parallelamente, in un clima generale di ottimismo e fiducia nel progresso, la pressoché totale immunità da conseguenze pregiudizievoli diverse dalla mancata rielezione ha indotto la nostra classe politica a elargire, per guadagnare consenso elettorale, diritti (automaticamente elevati al rango di quesiti) implicanti costi rivelatisi, alla lunga, insostenibili. Anche la classe politica ha, quindi, finito per assecondare il trend di una crescita a debito e dunque solo apparente. A danno delle generazioni successive. Le quali si trovano a ereditare un debito stratosferico che si vedono costrette a estinguere.
 
In sostanza, a irresponsabilità si è sommata altra irresponsabilità: un diffuso senso d’impunità ha spinto alcuni a gestire la finanza privata con l’illusione di sedere ai tavoli di un casinò. Così, si è accumulata un’enorme massa di debito che, oggi, sovrasta e minaccia di risucchiare come un buco nero l’economia di più di metà del pianeta. Se infatti, sull’Eurozona si allunga lo spettro della recessione; in Italia, il numero delle dichiarazioni di fallimento è aumentato, in un anno, del 61% e si teme per le sorti dell’euro, la Banca mondiale svela che le turbolenze dovute alla crisi del debito in Europa si sono propagate anche nei Paesi in via di sviluppo, i cui tassi di crescita sono stati rivisti al ribasso: al 5,4% nel 2012 e al 6% nel 2013 contro, rispettivamente, il 6,2% e il 6,3% stimati nel giugno passato.
 
In un simile contesto, è chiaro che non si tratta solo di sanare la frattura tra debito e responsabilità. Occorre soprattutto risaldare la finanza, sia pubblica che privata, all’economia reale riportando la prima alla sua, originaria ed essenziale, funzione servente. D’altronde, se per arricchirsi non basta far circolare la ricchezza, ma occorre produrla, per governare non basta il consenso. Servono anche ingegno e coraggio. Cioè idee nuove e insieme l’audacia di realizzarle.
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