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La necessità di cambiare il gioco

La nomina di Yoshihiko Noda a primo ministro del Giappone ha segnalato il passaggio da una leadership debole ad una più forte. Ma lo stesso si sarebbe potuto dire di tanti suoi predecessori nel momento in cui salirono al potere. Dopo le dimissioni di Koizumi nel settembre 2006, il Giappone ha conosciuto sei premier: Shinzo Abe, Yasuo Fukuda, Taro Aso, Yukio Hatoyama, Naoto Kan e adesso Noda. È anche vero che i primi ministri di lunga durata sono stati l’eccezione piuttosto che la regola nel sistema giapponese: Noda è il 31° primo ministro a occupare la carica dalla Costituzione del 1947 e comunque, prima di quella data, ben pochi sono durati quattro anni o più.
 
Eppure, anche per gli standard giapponesi, negli ultimi anni si è assistito a repentini cambi di fronte nella leadership politica del Paese. Purtroppo poi, l’insularità non sembra una risposta strategica adeguata all’accelerazione dei cambiamenti in Asia. I giapponesi diffidano più che mai della crescente potenza militare cinese. Solo il 7% ritiene che questa tendenza sia un fatto positivo per il loro Paese, secondo il sondaggio Pew del luglio 2011; mentre l’87% ritiene che sia un fatto negativo, dati che pongono il Giappone contemporaneamente in alto e in basso della classifica per tali categorie tra i Paesi sottoposti al sondaggio. Ma queste preoccupazioni non sembrano trovare espressione a livello politico. Il sistema politico, l’economia fragile e il declino demografico sembrano militare contro una robusta postura strategica.
 
Durante la Guerra fredda, l’assetto politico e le limitazioni costituzionali definivano un ruolo internazionale in cui prevaleva il fattore economico mentre la dimensione “hard” dell’influenza era gestita dall’alleanza nippo-americana. La Dottrina Yoshida, dal nome del primo ministro che la enunciò nel 1955, diceva essenzialmente che Tokyo doveva evitare la politica di alto profilo e puntare su un’agenda commerciale multilaterale di basso profilo. La Dottrina Yoshida non è adeguata al post-Guerra fredda. Per i suoi critici, essa ha lasciato il Giappone con troppi pochi muscoli e troppo poca autonomia, facendo affidamento sulla forza economica, nella convinzione che il Paese avrebbe potuto disporre di leve sufficienti, quando avesse voluto esercitare una pressione di tipo non-militare.
 
Dopo l’esplosione della bolla nel 1990, queste leve sono venute a mancare. Ciò vuol dire che il Giappone si è ritrovato a dover lottare non solo per definire la sua posizione regionale e globale, ma anche per individuare le necessarie leve per acquisirla. Ancora oggi al Giappone manca il consenso interno per andare oltre alla Dottrina Yoshida. E, per tutte le ragioni delineate da Samuel Huntington nel 2001, prova spesso un senso di profonda “solitudine”. Huntington ha descritto il Giappone come una “nazione sola”: la più piccola delle civiltà globali, unica per il fatto che la civiltà stessa fosse interamente contenuta all’interno di un solo Paese, senza significative diaspore oltremare e una popolazione di soli 130 milioni di abitanti. Inoltre, come ha affermato Huntington, il Giappone si distingueva come lo Stato non-occidentale di maggior successo per essersi modernizzato senza occidentalizzarsi.
 
Le differenze tra l’occidente e il Giappone erano profonde: tra “individualismo e gruppismo, egualitarismo e gerarchia; libertà e autorità; contratto e consanguineità; colpa e vergogna; diritti e doveri; universalismo e particolarismo; competizione e armonia; eterogeneità e omogeneità”. La costruzione di un consenso interno sul futuro corso delle relazioni asiatiche è reso sempre più necessario dall’incessante ritmo di cambiamenti all’assetto della sicurezza del continente. Durante gli anni Novanta e Duemila, la crescita dell’interesse nipponico per gli eventi esterni è stata guidata più da fattori esogeni (i test missilistici nordcoreani e l’ascesa cinese) che da spinte interne. La natura sociale del Paese è omogenea, resiliente all’immigrazione e centrata sugli imperativi della propria civiltà. Ma prima di tutto bisogna capire se il Giappone è interessato – e in quale misura – a svolgere un ruolo importante negli affari globali e regionali. Il terremoto di marzo, lo tsunami e l’incidente nucleare hanno accentuato la tendenza all’introspezione della società e dei suoi decisori politici.
 
È solo grazie allo stretto rapporto di alleanza con gli Stati Uniti che il Giappone è stato in grado di mantenere in passato un basso profilo internazionale. Molto più dipendente dallo stato di salute di questa relazione di altri alleati americani, esso è assai sensibile ai rischi di marginalizzazione geopolitica. È per il peso della storia che una potenza oceanica esterna, gli Stati Uniti, si ritrovano impegnati a difendere i bordi della massa continentale eurasiatica dalle minacce di potenze autoritarie che emergono all’interno della stessa. Ora Tokyo teme sempre più che gli Stati Uniti possano indirizzarsi verso una maggiore cooperazione con la Cina, alle spese del Giappone.
 
Da parte loro gli Usa, indeboliti da deficit e guerre, sembrano intenzionati a fare maggiore affidamento in futuro sugli alleati di prima linea, affidando loro una maggiore responsabilità strategica. Ma le alternative – autonomia o un più forte legame con il resto dell’Asia – restano opzioni poco appetibili. Certo il Giappone è un Paese ad elevata tecnologia, ma con la sua economia stagnante, la popolazione che invecchia e una politica alle prese con una difficile transizione, non sembra pronto a fare il salto da politiche caute a politiche più audaci, le sole in grado di consegnarle più ampia libertà di manovra.
 
Al tempo stesso, il Giappone ha finora raccolto al suo fianco solo pochi partner asiatici che possano infonderle sicurezza nella turbolenta fase di trasformazione geopolitica asiatica ormai incombente. In conclusione, sembra potersi dire che solo uno sconvolgimento delle attuali coordinate geopolitiche giapponesi – un evento in grado di “cambiare il gioco” – potrebbe dare a Tokyo la chiave per svolgere un ruolo di primo piano nel forgiare gli equilibri regionali.


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