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Pensiero e azione

Visione, conoscenza, direzione, velocità. Chi non vorrebbe avere la sicurezza di queste quattro parole prima di intraprendere qualsiasi percorso? Nessuna di queste conquiste sarebbe però tale se non fosse prima pensata. Ed è il pensiero il vero punto di partenza: permette di formare concetti, formulare ragionamenti, prendere decisioni, arrivare a soluzioni di problemi. E il rapporto fra il suo agire e i tempi necessari all’azione, risulta particolarmente interessante.
 
Gli obiettivi di chi decide un’azione possono essere, infatti, a breve, medio o lungo termine. Mentre l’azione a breve termine implica una volontà che, talvolta inconsciamente, talvolta mossa da conoscenze e bisogni, produce risultati in tempo reale, quelle a medio termine sono più complesse: in esse entra in gioco un percorso progettuale che si articola nell’analisi della situazione, nella definizione di risorse e obiettivi, e nella verifica dei risultati. Ma sono le azioni a lungo termine, quelle adatte a perseguire grandi obiettivi attraverso percorsi complessi, che sommano diverse azioni, a breve e medio termine, costruendo necessarie sovrastrutture teoriche che reggono il progetto stesso. In questo caso, tanto più strutturato è l’obiettivo, tanto più esso conterrà elementi tratti dai valori di riferimento di chi promuove l’azione, fino ad identificarsi con l’ideale stesso. Ne deriva che nessuna azione a medio e lungo termine è possibile, se non è sorretta da un ideale di riferimento, se è priva di un orizzonte di valori che le imprima coerenza e linearità.
 
Società degradata?
Sembrerebbe che la nostra società, quella occidentale, abbia smarrito la capacità di pensare e che, sprovvista di quei valori a cui il pensiero dà forma, si ritrovi schiacciata da un eterno presente. Una condizione che le consente esclusivamente di re-agire a stimoli, semplici riflessi “nervosi”, risposte riproducibili e involontarie.
Per dirla con Benedetto XVI, “l’occidente da molto tempo è minacciato da un’avversione a quelli che sono gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire un grave danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza: è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente”. Alle parole del pontefice, aggiungerei che questo dovrebbe essere anche il programma di una laicità e di una modernità che vogliano uscire dal vicolo cieco in cui si sono cacciate, allorché hanno smesso di prendere sul serio sia la verità sia la religione. In gioco, se ci pensiamo bene, non è soltanto la verità, ma l’idea stessa che esista qualcosa che l’uomo può riconoscere, ma non determinare, costruire, esserne padrone.
Un vicolo cieco, insomma. Che ha una genesi storica precisa.
 
Tra gli anni ‘50 e ‘60 del XX secolo l’Italia fu protagonista del cosiddetto “boom economico”, che portò una profonda e rapida trasformazione delle strutture economiche e sociali: da Paese prevalentemente agricolo divenne un moderno Paese industrializzato. Questo fu il risultato di svariati fattori: lo sfruttamento della grande congiuntura internazionale, agevolata anche dalla fine del tradizionale protezionismo, la disponibilità di nuove fonti di energia, la trasformazione dell’industria dell’acciaio con il conseguente incremento della produzione e abbassamento dei prezzi, l’esiguo costo del lavoro.
Gli anni successivi al secondo dopoguerra videro l’Italia come uno tra i Paesi più industrializzati del mondo, fortemente inserito nel “sistema” occidentale di mercato. Gli anni del “miracolo” furono anche anni di grandi trasformazioni degli stili di vita, dei mezzi di comunicazione, dei costumi del popolo italiano, dell’aspetto del territorio.
 
La mancanza di una regolazione nell’esplosione economica, se non la pura legge di mercato, provocò profondi scompensi nella società, fino alla cosiddetta “distorsione dei consumi”: la crescita orientata all’esportazione, ad esempio, privilegiò la produzione di beni di consumo privati, a scapito di un adeguato sviluppo di quelli pubblici (un’eredità di cui ancora oggi “godiamo”, sono le nostre infrastrutture, arretrate rispetto agli standard europei). Ma le conseguenze del “boom” in campo sociale, intellettuale e artistico fecero approdare il Paese a un epilogo negativo: superficialità della vita, impersonalità intellettuale, svalorizzazione e standardizzazione culturale. Tutto il resto è stato spazzato via.
 
Gli oggetti al potere
“Nel frattempo gli oggetti erano andati al potere. La loro prima vittoria era stata il superamento del concetto di utilità. Piano piano avevano occupato anche gli spazi più nascosti delle nostre case e da lì ci spiavano ed era difficile intuirne il senso sovversivo. Dopo anni di schiavitù gli oggetti tentavano la strada del dominio…”. Con queste parole, Giorgio Gaber inizia il testo/canzone Gli oggetti, in cui lancia un allarme sull’invasione della cultura consumistica e dell’amore per il superfluo: allarme che oggi vale più di prima.
 
Siamo, dunque, sotto il pieno dominio degli oggetti che, con un ciclo di vita così breve, sono in piena contrapposizione a una concezione della vita sostenibile: l’ambiente è entrato in conflitto con questo nostro sistema economico (che rilancia i consumi per sconfiggere la crisi), e tutti dovremmo prenderne atto, cercare un compromesso tra il “troppo” e il “troppo poco”. Ma i tempi d’uso dei beni che inondano le nostre vite hanno creato pericolose sincronie, ad esempio, con i tempi della politica: sempre più veloci, incalzanti, rendono il sistema incapace di trovare al proprio interno le energie necessarie per auto-rigenerarsi. Gli addetti ai lavori hanno capito ormai che vendere una proposta politica non è diverso dal vendere un’automobile o un elettrodomestico, e viceversa.
 
Siamo tutti bombardati da stimoli, messaggi, test e sondaggi e le nostre teste sono diventate il luogo dove circolano idee e valori che noi non abbiamo prodotto, ma semplicemente assorbito.
Teste che la politica “sonda” per costruire consenso, e non per conoscere idee e valori. E verificare il grado di efficacia dei media nell’inculcare in loro un’idea o un presunto valore, e poi appurarne l’indice di gradimento. Ridotte in questo modo a “schermi di lettura”, le nostre teste non sono più un “luogo di ideazione e di invenzione”, ma un luogo di “assorbimento”, dove ogni senso si inabissa e ogni significato acquisito si allinea a quell’ideale di uniformità che è l’inerzia del conformismo.
 
Nei primi decenni del dopoguerra, abbiamo vissuto una grande tensione ideologica e morale che si estendeva a tutti i livelli della società e che permeava l’intera vita politica di valori forti di riferimento. Oggi ci muoviamo in una società “arida”, incapace di pensare, di motivare e di rigenerarsi.
Non ci sfugge che il sentimento dominante è la paura di perdere qualcosa che ritenevamo acquisito. È una società incapace di guardare avanti ma, forse, prima ancora, di guardare in alto e farsi prendere da quel “languore leopardiano” indotto quando il pensiero umano affronta il mistero di ciò che non conosciamo.
 
Alternative?
Costantino Esposito, docente di Storia della filosofia nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Bari, la vede così: “Gli uomini del nostro tempo sembrano custodire in sé un terribile, silenzioso segreto: che la domanda sul significato della vita sia una domanda inutile e illusoria. Certo, nessuno potrebbe vivere senza porsi quella domanda, ma il più delle volte essa appare come una domanda chiusa in se stessa, senza possibilità di ricevere risposta. E così tutti si affannano a costruire delle risposte parziali e finiscono per pensare che l’attesa più profonda del cuore dell’uomo sia solo un desiderio illusorio, un’attesa senza compimento”.
 
Un tempo, questo groviglio di questioni potevano essere affrontate con l’identificazione in modelli politico-culturali precisi: il cattolicesimo politico in Italia e Germania, il socialismo nei Paesi dell’Europa dell’est. Oggi, molte di queste appartenenze sono state messe in discussione: in Italia, ad esempio, il post ‘89 ha archiviato il comunismo mediterraneo ma anche il cattolicesimo sociale e lo stesso socialismo riformista.
Ma quelle ideologie messe in cantina erano comunque portatrici di contenuti etici e filosofici forti, che orientavano l’agire politico-amministrativo, contribuendo ad alimentare una dialettica partecipata, a costruire scenari e a definire progetti sul futuro della società stessa. La forza del valore di riferimento consentiva di creare obiettivi e di motivarli, nell’ottica di costruire il domani della società, in cui i cittadini si riconoscevano con entusiasmo.
 
L’uomo al centro
Smarrita la spinta ideologica, la visione si è ridotta a un’analisi di mercato e i sistemi politici hanno fatto proprio questo modello, anzi, lo hanno elevato a sistema di riferimento valoriale sostituendolo a quello ideologico. Come conseguenza, a risultare stravolto è stato lo stesso meccanismo del consenso che, privo di valori di riferimento, si appiattisce sull’esito degli indici di gradimento, svuotati di storia e significato, privi di qualsiasi coscienza politica.
Il punto non è stabilire se tutto questo sia giusto o sbagliato, ma ridefinire le appartenenze e anche le tradizioni in rapporto ad altri paradigmi e soprattutto sulla base di un progetto di cui la società e la politica, che della società è figlia, si dovrebbero dotare.
Per riparare il cortocircuito, avvenuto in anni e anni di inazione, tra pensiero, azione politica e valori di riferimento, occorrerebbe ripartire dall’uomo.
 
Non da “chiunque”, ma da un uomo alla ricerca della propria dimensione, che abbia coraggio e speranza: il coraggio dei grandi interrogativi di senso e la speranza di poter rintracciare una risposta, ispirato dai valori di cui apparentemente la società e i suoi rappresentanti hanno perso la memoria.
La politica ha bisogno di rigenerarsi, di rammentare le proprie connessioni con istanze più alte e con un orizzonte valoriale più ampio.
Una politica senza sovrastrutture ideali non ha senso ma queste ultime non si possono ridurre esclusivamente negli obiettivi di breve periodo (tasse, lavoro, economia…): la politica, al contrario, deve poter ricercare un senso, una direzione, una visione che possono nascere solo da un nuovo modo di pensare e di riflettere, che forse fa meno audit, ma che sta alla base dell’evoluzione della cultura dell’uomo.


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