Skip to main content

Ragioni e retorica degli indignados

Anteprima del numero di Formiche di maggio 2012
 
Maggio sarà il mese della ripresa, non dell’economia, ma delle contestazioni da parte di un movimento autoproclamatosi gli Indignados, o Occupy Wall Street, o altri luoghi a seconda del Paese. Iniziato alla Puerta del sol a Madrid come protesta non violenta dei giovani spagnoli per le difficoltà economiche in cui versano, è divenuto presto per i protestatari di tutto il mondo la chiamata a mobilitarsi in una opposizione plateale, fisica, vociante, pervicace ai simboli di quel regime che li esclude attualmente dal lavoro, dal benessere, da una prospettiva stabile di reddito, dal realizzare le loro aspirazioni.
 
Nei diversi Paesi solo alcuni tratti sono in comune: in primo piano la contestazione dell’ordine costituito, sia esso economico, finanziario, sociale o politico. Avendo luogo principalmente in Paesi democratici di antica industrializzazione, le proteste in piazza appaiono in essenza come una forma di opposizione a un regime di democrazia consolidato da decenni che non viene incontro abbastanza alle loro esigenze. Soprattutto i giovani sentono di aver ereditato dai loro padri un sistema oggi in crisi, che non produce benessere per tutti, che non dà spazio al merito, all’inserimento delle nuove generazioni nel lavoro, a un’equa distribuzione della ricchezza, a una condivisione del potere di incidere sul futuro corso della società.
 
Ma non sono solo i giovani a denunciare in piazza il carattere pilotato delle democrazie occidentali, in cui prevalgono gli occulti centri di potere in grado di sostenere con grandi risorse la diffusione non di idee e programmi per l’avanzamento della società, ma di slogan di grande presa tra le masse, per poi di fatto ottenere la protezione dei loro interessi. Alla protesta si sono uniti anche gli oppositori di ogni potere, gli estremisti di sempre, i disoccupati, i disadattati, quanti hanno bisogno di una giusta causa per dare senso al loro essere.
 
Le note che risuonano più frequentemente tra i partecipanti sono infatti l’esclusione dalle opportunità di lavoro e di benessere, la carenza di prospettive, la precarietà delle loro condizioni, i guasti prodotti dall’avidità della finanza, la corruzione, le sperequazioni di reddito e di ricchezza, e, fenomeno allarmante, la disaffezione verso le istituzioni e le forze rappresentative della democrazia. Il sistema democratico appare a costoro ingessato negli interessi di parte e dei potentati economici e finanziari. A ben guardare in queste motivazioni non vi è molto di diverso da quanto si è visto in anni passati, ad esempio nel ‘68 in Europa e Usa, nella fase acuta della guerra del Vietnam, nelle proteste della comunità di colore in America, nella rivoluzione dei fiori in Portogallo.
 
Tuttavia, questa volta la crisi economica è la più severa dal secondo dopoguerra, almeno in Europa, e non essendo superabile in breve tempo per la gravità e profondità degli squilibri, può alimentare il diffondersi delle proteste con derive incalcolabili. Se non si sono viste ancora queste temute fiammate è per il fatto che la partecipazione a questi movimenti è ancora molto minoritaria, mancano i leader e principalmente chiarezza e convergenza negli obiettivi.
 
I protestatari appartengono pur sempre ad economie sviluppate, con reti di sicurezza e assistenza sociale estese e radicate, con il salvagente delle famiglie, con sistemi pubblici d’istruzione e sanità, con aiuti ai disoccupati, non cittadini affamati, diseredati e senza diritti. Il loro movimento è volutamente senza leader per l’intento di far sorgere dal basso, dalla partecipazione di tutti, il moto verso il cambiamento, la rivoluzione, il rovesciamento dell’ordine costituito. Accolgono ogni filone di protesta, di ogni colorazione politica e sociale, dai libertari all’estrema sinistra. Il risultato è una congerie di obiettivi, spesso definiti vagamente, carenti nella coerenza e sempre legati alle specifiche realtà del Paese in cui si protesta.
 
In Usa, ad esempio, i sostenitori di Occupy Wall Street invocano sia misure plausibili, come incrementi della tassazione dei ricchi, riduzione delle agevolazioni fiscali alle società, riforma del finanziamento dei partiti, sia provvedimenti preoccupanti, come la chiusura delle importazioni dalla Cina, preferenze ai prodotti americani rispetto a quelli stranieri, limitazioni all’outsourcing, ossia un arretramento notevole nella libertà di scambio. In Italia, invece, si protesta paradossalmente per rafforzare le rigidità del mercato del lavoro, contro le banche italiane che hanno poca responsabilità per la crisi finanziaria, contro la Banca d’Italia che da decenni predica la disciplina nel bilancio pubblico e che meglio delle consorelle dei Paesi Ocse ha vigilato per la stabilità del sistema finanziario. In ciò è evidente come a protestare sia gente avvezza a uno standard di vita non più sostenibile, perché la concorrenza estera è divenuta atroce, la produttività langue e si è in ritardo in fatto di tecnologia, saper fare e competitività. Si contesta anche a ragione, ad esempio, il clientelismo, la gerontocrazia, la corruzione, il sistema dei partiti dalle molte disfunzioni.
 
Possiamo allora considerare questa protesta come una costante normale del divenire della società, o va presa in seria considerazione per approntare rimedi ai mali denunciati? No, non si può trascurarla e non soltanto per il timore che si ingrossi notevolmente durante il penoso aggiustamento che la nostra società dovrà compiere per anni, ma soprattutto perché molti dei mali denunciati sono reali e anche perché non si deve fare a meno di queste risorse umane nel costruire la società del benessere.
 
Il problema è tuttavia come riuscire a realizzare il cambiamento in una società in rapido invecchiamento, piena di posizioni di privilegio sia tra gli abbienti sia tra i meno abbienti, sempre pronta ad accampare diritti senza riconoscere doveri, corrosa dall’illegalità diffusa, ostile alla concorrenza in quasi tutti i campi, assueta a una democrazia clientelare, intasata da una politica intesa come fonte di guadagni. Compito arduo per la società, ma ineludibile se non vuole continuare nel declino.


×

Iscriviti alla newsletter