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Diabolica perseveranza

Non bisogna essere vecchie cariatidi per ricordare gli infiniti dibattiti sul ruolo dei partiti e sulla loro presunta fine. Sono alcuni decenni che se ne discute, nelle università, nei circoli politici e persino nei bar. L’immagine deleteria della partitocrazia viene da lontano e, sebbene a metà degli anni ‘90 si decise di fare a meno dei contenitori tradizionali, quell’onta non è mai venuta meno. Si è detto e si è scritto tante volte che la società era ed è molto cambiata e che le forme organizzative che avevano retto per quasi cinquant’anni dal dopoguerra erano superate. L’avvento della televisione, e tanto più di Internet, rendeva non più utile una presenza capillare e democraticamente strutturata dei partiti. Via le sezioni, via le vecchie insegne, le nuove formazioni si sono basate sull’idea di leadership e di marketing politico-elettorale. I risultati si sono visti. È aumentato il finanziamento pubblico, è aumentata la corruzione, è aumentata la pervasività della politica nelle istituzioni e nell’economia, è accresciuto l’immobilismo del ceto dirigente rappresentativo (rappresentativo sulla carta, naturalmente).
 
A fronte di partiti che, pur nell’eccentricità italiana, rispecchiavano profili culturali europei ed internazionali, hanno fatto seguito movimenti senza identità. Un altro dei refrain sentiti e risentiti in questi anni di deserto politico è quello per cui non esisterebbe più la destra, la sinistra, il centro. “Tutte categorie vecchie, superate”: questo è il ritornello. Una gran fregnaccia che suona tanto come una fregatura ai poveri cittadini elettori, che in realtà si accontenterebbero di essere governati da persone serie, capaci di perseguire l’interesse generale. Invece non è così perché si è pensato che la politica fosse un optional e la comunicazione invece un elemento fondante. È ovvio che questa visione è un unicum mondiale. E non è un bel primato. In Francia, in Inghilterra, in Germania, negli Stati Uniti, dovunque, i partiti esistono e resistono, non cambiano nome a ogni piè sospinto e soprattutto conservano un loro tratto identitario che pure si aggiorna, spesso con dibattiti laceranti che magari provocano profonde divisioni e crisi, ma quasi mai scissioni o messe in discussione del partito stesso.
 
In questi mesi stiamo assistendo, ed assisteremo ancora per un po’, alla fine di un sistema che ha governato molto male per poco meno di venti anni. Non vi è dubbio che Silvio Berlusconi è l’uomo politico che più rappresenta questa fase in declino e quello che, avendo maggiori meriti, ha maggiori responsabilità. Tuttavia, se l’imprenditore televisivo ha la “colpa” di aver tracciato una rotta sbagliata, gli altri (tutti gli altri) hanno la colpa maggiore di averla seguita e in alcuni casi – come il Pd di veltroniana memoria – di averla rinvigorita. Adesso il rischio che si presenta è quello che in altre circostanze abbiamo denunciato. Che si riproponga cioè una nuova forma di berlusconismo, senza però l’Originale. L’errore che vediamo perpetuare è quello di continuare ad organizzare l’offerta politica sulla base di ingredienti estranei alla tradizione europea (e italiana, quando l’avevamo). Sembra che si voglia scomporre e ricomporre su basi nuovamente fragili e marketing-oriented. I partiti non sono un incidente della storia. Non è stata ancora brevettata una forma di democrazia che ne possa fare a meno. E non sono ancora noti partiti, frutto di nuove alchimie, che abbiano saputo mettere radici solide. Costruire le basi per un nuovo fallimento non è una impresa che ci intriga. Continuiamo a pensare che senza una visione profonda e senza valori, e quindi identità, non possa esserci un progetto politico che abbia prospettiva.


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