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Enrico Bondi, ritratto del risanatore silenzioso

Da un po’ di tempo a questa parte in Italia tutti vanno matti per Sergio Marchionne, come manager esempio e simbolo della tenace capacità di risanare e rilanciare sul mercato la Fiat pluricentenaria. Con grande rispetto per Marchionne e i suoi successi, chi qui scrive spezza una lancia controcorrente. Il manager italiano al quale quasi nessuno pensa, e che più di tutti merita un monumento per la caparbietà con la quale ha saputo confrontarsi con un cadavere d’azienda reduce da un crac finanziario da 14 miliardi di euro rifilati a incolpevoli risparmiatori, più altri 9 di restanti debiti ufficiali allora certificati, si chiama Enrico Bondi. Saranno quattro anni il prossimo 27 dicembre, da quando il Tribunale di Parma dichiarava l’insolvenza di Parmalat e l’ammetteva alla procedura di amministrazione straordinaria, modificata appena quattro giorni prima dal decreto Marzano.
 
 
Dopo quattro anni, il bilancio della nuova Parmalat è tutto in positivo. E lo si deve unicamente a lui. Al fatto di essere, oltre che un ottimo manager di lunga esperienza, un bastian contrario che ha accettato in pieno una sfida che nessun altro avrebbe sostenuto con altrettanta coerenza. Non solo ridar vita, presente e futuro a un gruppo che da anni viveva su attivi patrimoniali e scritture contabili tanto falsi da esser divenuto nel mondo intero una case history citata a modello negativo, ma, soprattutto, tenere dal primo giorno a oggi la barra dritta su un obiettivo da far tremare le vene e i polsi: perseguire la rinascita avendo l’intero sistema bancario come nemico. Scusate se è poco, nel Paese più bancocentrico del mondo, laddove tutte le banche italiane o quasi – tranne la vecchia Mediobanca cucciana e maranghiana, sia detto a loro gloria – insieme a una sfilza di grandi banche straniere, per anni avevano fatto a gara a reggere il debito falso di Parmalat con emissioni di obbligazioni sulle quali lucravano fior di commissioni, tranne poi rifilarle a risparmiatori al dettaglio poco prima del crac, quando ormai si capiva che qualcuno avrebbe dovuto rimetterci il capitale prestato.
 
Sono le banche che avevano a che fare con la Parmalat “marcia”, infatti, i soggetti ai quali Bondi sin dall’inizio ha rivolto richieste di revocatorie e risarcitorie per decine e decine di miliardi di euro. È dalle somme recuperate in contenzioso legale con le banche, che nello statuto della nuova Parmalat Bondi ha scritto che devono venire le risorse per ristorare almeno in parte i risparmiatori e gli azionisti traditi. Lui avrebbe pensato a riportare i conti all’utile e ai dividendi, ma certo non era dai dividendi che si recuperavano nel prossimo futuro i danni patrimoniali ingentissimi inflitti a chi si era fidato di un marchio che sembrava solidissimo e che le banche “rivendevano” ai propri sportelli.
 
Nei primi 20 mesi del suo lavoro da certosino, il silenzioso e tenace manager aretino ha innanzitutto rimesso in piedi Parmalat difendendone perimetro industriale e sfoltendone i marchi, ma lasciandola ancora ben presente in cinque continenti per un valore di asset industriali intorno ai 2 miliardi di euro. E i primi mesi furono terribili, perché le banche non credevano ai propri occhi, e instancabilmente animarono una fitta campagna di stampa per la quale la strategia di Bondi era suicida: non c’era nessuna speranza di vincere in giudizio contro di esse, tanto valeva che Bondi concentrasse l’intero contenzioso in una società veicolo della quale mettersi a capo, separando la società industriale da risanare, che alcune grandi banche– per esempio Intesa – avrebbero visto bene se concessa in dote ai cooperatori di Granarolo. Bondi non ci ha pensato nemmeno un secondo, e agli attacchi di stampa ha riservato silenzi densi di fatti. Che davano sempre più ragione a lui, non ai banchieri critici.
 
Del resto, l’aura di eroe risanatore non troppo amico delle banche circondava da tempo Bondi, il taumaturgo del crac Ferruzzi, il risanatore di Ligresti, l’uomo bandiera che Tronchetti chiamò non a caso nei primi mesi in Telecom, per far capire al mondo che avrebbe adottato una sana logica industriale. Ed è sempre lo stesso uomo le cui temibili virtù indussero proprio e sempre le banche a porre un secco veto nei suoi confronti, quando gli Agnelli al declino si erano convinti che non ci voleva niente di meno della sua fermezza, per tentare il salvataggio dell’azienda torinese. Troppo poco manovrabile, il Bondi, fu il verdetto bancario di allora. E Bazoli si incaricò con successo di ottenerne la testa. In Parmalat la ragione è diversa, quella per cui le banche non hanno amato Bondi. La sua strategia di recupero ha finito per costituire l’unica vera punta di lancia per comprovare che le banche sapevano e che avevano lucrato.
 
Finché Bondi resta e va avanti, le banche non possono sperare che il pubblico dimentichi la parte più odiosa dello scandalo Parmalat, cioè la circonvenzione di risparmiatori incapaci da parte degli istituti di credito. Ma anche se le ragioni di fondo sono cambiate, la diffidenza di fondo è la stessa. Quel don Chisciotte fa troppo di testa sua, non rispetta abbastanza il vero grande potere italiano, che nell’orticello di ex poteri forti ormai troppo indebitati non può essere altro che quello bancario. Mentre Bondi andava avanti per la sua strada e riportava il titolo in Borsa, la politica invece non riusciva per quasi un’intera legislatura a produrre la riforma del risparmio, cambiando idea più volte sulle responsabilità del mondo bancario negli scandali, con tanto di reiterato cambio di inquilini al Tesoro. Fino al braccio di ferro finale su Bankitalia, dopo l’estate dei furbetti: che pure non ha provocato danni nemmeno lontanamente comparabili a quelli di Parmalat. Bondi è stato ammirevole. Con pochi collaboratori fidati, ha vinto la scommessa di difendere il perimetro industriale core e i marchi di valore del gruppo Parmalat, dismettendo ciò che andava dismesso. Ha fatto luce sul reale stato patrimoniale, consentendo indagini e processi. Ha posto le premesse prima e i puntelli poi perché la società riavviata riottenga il massimo dalle revocatorie e azioni per danni per una cinquantina di miliardi di euro, avviate in complesso dal commissario straordinario a primarie banche italiane ed estere.
 
Le banche all’inizio avevano sperato che la Consob negasse l’approvazione alla proposta di concordato, proprio per l’eccessiva aleatorietà del ricavabile dalle azioni intentate alle banche stesse. Alla prima decisione di una corte americana dilatoria sulle richieste a Citigroup, tutti in coro ad ammonire Bondi che sbagliava. La sua ostinazione a non dividere la Parmalat industriale da una società in cui parcheggiare il contenzioso poteva risolversi in un pasticcio. Ma come sarebbe stato possibile, stante la gravità senza precedenti dello scandalo del gruppo Tanzi, con conti falsi e compiacenti complicità o negligenze gravissime protrattesi per anni da parte di una lista assai ampia di soggetti, che il concordato prima, e ora il prospetto per tornare in Borsa, conte-nessero una situazione rose e fiori? Non dipendeva da Bondi se i miliardi che potevano affluire nelle casse della nuova Parmalat per via giudiziale o stragiudiziale – come sempre più spesso nella realtà ha preso ad avvenire, poiché le banche preferiscono accordarsi fuori dai Tribunali alla prospettiva delle condanne – erano sottoposti ai tempi lunghi della giustizia e alle incertezze in cui ancora si dibattono i magistrati penali, circa il coinvolgimento delle banche nella colossale truffa pluriennale.
 
Il nuovo titolo Parmalat è stato volatile, è vero, per effetto delle oscillanti decisioni giudiziarie da allora succedutesi sulle due rive dell’oceano. Negli ultimi 12 mesi, il titolo ha perso più del 20%, poco più della media degli alimentari al quale appartiene, in ragione della maggior volatilità che dipende dai recuperi legali. Ma intanto Bondi è tornato all’utile e ai dividendi. Già nel bilancio 2006, il secondo dal ritorno in Borsa, su un fatturato di quasi 4 miliardi di euro 192 milioni di utile, che quest’anno potrebbero toccare e superare i 500 milioni, con un Mol annunciato di quasi 300 milioni a fine 2007, visti i conti del primo semestre. La nuova Parmalat torna a considerare espansioni e acquisizioni all’estero, ma senza penalizzare i dividendi attesi. E Bondi ha fatto di Parmalat l’unica vera grande public company italiana, con un mucchio di fondi esteri e italiani nel suo capitale. Non appena la partita dei recuperi sarà a buon punto – oggi siamo a malapena a un terzo – ogni giorno sarà buono, per un’Opa di mercato volta ad assicurarsi il controllo del gruppo ma questa volta spalmandone il premio su tutti gli azionisti. Scusate se è poco, rispetto a chi pensava che la partita Parmalat sarebbe stata decisa da politici e banchieri come nel caso della Sme. Come diceva Rostand, un eroe è chi fa quello che può. Bondi, è stato di quella pasta. Parlamento e governi hanno sfigurato, di fronte alla sua tenacia. Non sono riusciti né in quel che potevano, né in quel che dovevano.
 
Dei banchieri è meglio non parlare. Come delle società di revisione e di certificazione, dei sindaci e dei consiglieri pseudo-indipendenti e delle Autorità che vigilano sul mercato: tutti per anni ciechi e sordi, di fronte alle frodi del sistema banco-Parmalat. L’unico vero manager italiano risanatore che possa passare da eroe, è quello che ha messo in conto, finito il compito, di tornare ai propri ulivi e da sua moglie nelle campagne aretine. Perché, dopo questi anni, le banche non gli consentiranno nemmeno di amministrare un condominio.
 
Formiche, dicembre 2007 


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