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Fiori di carta di maggio 2012

La storia è terribile, come sempre quando a determinarla è una forza misteriosa e travolgente come la perdita della ragione, la follia.
Non c’è verso di capire, né punto di vista da cui giudicare: lo sguardo neutrale dello scrittore si limita a fornirci un resoconto deliberatamente misurato, trattiene l’emozione e insegue un tono sommesso. Eppure tutto intorno è un grido, a cominciare dai colpi di pistola con i quali la storia si conclude e paradossalmente l’incubo si dissolve.
Marco Franzoso racconta una vicenda di troppo amore, l’ansiosa ricerca di un’impossibile salvezza in questo mondo dove ormai «tutto è disumano» e, infatti, «vogliono tenerci lontani da noi stessi».
 
L’amore anche questa volta – ricordate Tu non sai cos’è l’amore (2006)? – non è una cosa meravigliosa, ma uno spazio nel quale due persone si cercano, si inseguono, si desiderano invano, perché più forte resiste la solitudine, l’incomunicabilità. Un amore disamorante, dunque, dove la gioia dell’incontro, in questo caso «un autentico appuntamento al buio», scolora rapidamente nel silenzio dell’incomprensione, nel gorgo di un disagio che si manifesta in scelte esistenziali apparentemente poco significative – «io sono vegetariana», lassù tra le Dolomiti «c’è una bella energia e l’aria è leggera» – per diventare sempre più invadenti e stranianti, ossessive e radicali.
 
Il matrimonio di Carlo e Isabel dura sereno per un breve tratto, poi l’attesa di un figlio scatena il malessere di lei, riaccende il suo conflitto con un mondo ostile e aggressivo. Isabel, di fronte a una vita nuova che arriva, «aveva gli occhi rossi e un’espressione triste» e pretendeva di cambiare tutto: «Il nostro stile di vita, la serenità che dobbiamo
creare in casa, il cibo che mangiamo», inseguendo una purificazione sempre più distante dalla realtà, che per prima cosa allontana il cibo e la consuma in un delirio anoressico senza scampo.
 
Si impone – sostiene – una nuova disciplina, rigorosa, severa, affinché il bambino che ha in corpo, e ancor più quando sarà nato, sia «diverso», anzi sia «un bambino indaco». Rispetto a un mondo dove «non c’è più nulla di naturale nella vita delle persone» i bambini indaco del Terzo millennio «possiedono notevoli attributi psicologico-spirituali e hanno un istinto comportamentale rivoluzionario… vengono sul pianeta Terra per aiutare l’umanità a progredire verso il bene supremo, messaggeri e creatori di una nuova era…, sono i bambini della guarigione…, pura luce, oltre il corpo».
Ormai ogni buon senso è perduto e così quando il piccolo viene al mondo diventa la cavia di esercizi sempre più pericolosi, che somigliano ad autentiche torture: rigide diete vegane e crudiste che lo condannano a una fame dolente, impedendone la crescita e lo sviluppo.
 
Non resta che la guerra, come quando è questione di vita o di morte. Il mondo normale contro quell’altro irreale, l’esperienza quotidiana contro l’invasione degli extraterrestri, le pene e i dolori contro il superamento di ogni condizione umana.
Marco Franzoso ha sempre esplorato le periferie della vita, i confini che ancora ne trattengono il senso, ha ascoltato con Romolo Bugaro Le ragazze del Nordest sull’orlo dello smarrimento, ma mai come in questo rendiconto ha affrontato la dissoluzione di ogni «attesa nei confronti della vita», fino al punto di convincersi «che proprio quest’assenza è il fine ultimo della vita», disperatamente, anche a costo di fermarsi di fronte al delirio della follia, attonito, senza neppure provarsi a intenderne il messaggio che paradossalmente ci invia.
C’è in questo suo nuovo romanzo – Il bambino indaco (Einaudi, pp. 132, euro 16) – lo svanire di qualsiasi speranza di conoscenza e di comprensione e il confondersi della letteratura nell’esperienza, come se questa fosse ancora troppo vicina per poter essere davvero ricostruita.
Quei colpi di pistola che finalmente esplodono a liberare la vita dalle forze oscure che la rinnegano sono solo in apparenza risolutivi se il narratore conclude il racconto sognando di «non avere una storia e neppure un futuro, soltanto la concentrazione di questo presente».
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