Era il 9 maggio 1978 e quella sera Peppino saliva per l’ultima volta sul palchetto dei comizi, per dare voce, ancora una volta, a tutta la sua rabbia nella denuncia degli intrallazzi mafiosi e delle sue collusioni politiche, religiose e sociali.
Ma quel ragazzo che da una piccola radio attaccava i boss di Cosa Nostra, che sventolava la bandiera rossa della rivoluzione sotto il loro occhi, che sfidava Tano Badalamenti fin sotto casa, distante a solo cento passi dalla sua, poco dopo la sua candidatura nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali di Cinisi, venne dilaniato da una carica di tritolo piazzata sotto il suo corpo adagiato sui binari della ferrovia.
Ma trentaquattro anni dopo il suo assassinio, la questione non è ancora chiusa, e per Peppino dire messa è ancora un tabù.
“I tempi non sono maturi”, ha spiegato don Pietro D’Aleo, parroco della Ecce Homo a Giovanni Impastato, impegnato in prima fila nelle manifestazioni in ricordo del fratello che per quattro giorni hanno alternato dibattiti, incontri e cortei. “Noi avevamo chiesto una messa, ci ha risposto che era meglio di no”, dice Giovanni.
La celebrazione è stata sostituita da una più laica “veglia di preghiera per la legalità e la giustizia sociale”, officiata ieri sera da don Luigi Ciotti.
E nella ricorrenza dell´anniversario della tragica morte di Peppino Impastato, la Regione Sicilia ha già avviato le procedure per l´espropriazione per pubblica utilità, del casolare e del terreno circostante a Cinisi ove egli fu ucciso, per trasformare questo luogo simbolo dell´efferata violenza mafiosa in un museo della memoria.