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…o almeno ingegnose

Le città sono ormai il luogo delle opportunità e dei problemi della contemporaneità. L’aspetto forse più caratterizzante delle città italiane è il loro cuore antico, il centro storico e il patrimonio culturale diffuso: più che un limite verso la loro modernizzazione, questa specificità è invece una straordinaria occasione per una forte caratterizzazione identitaria.
 
Una forte identità è un fattore competitivo sempre più rilevante – nell’era contemporanea – per i territori ed è importante per molti motivi. Le città infatti sono sempre più spinte a competere per le risorse chiave: i finanziamenti comunitari, i talenti e i turisti. L’identità di una città è dunque il prodotto di un dialogo continuo e positivo tra tradizione e innovazione, fra le preesistenze e le nuove tecnologie. Anzi, è proprio grazie a un uso coraggioso e visionario delle nuove tecnologie, ma che sia nel contempo rispettoso delle tradizioni e coerente con le vocazioni del luogo, che l’identità si rafforza, si adegua allo spirito del tempo e può essere compresa anche dalle nuove generazioni. Anzi, la dimensione storico-artistica delle nostre città può – anzi deve – diventare un vero e proprio laboratorio a cielo aperto dove sperimentare in vivo le tecnologie e le soluzioni più avanzate, che consentano una sana modernizzazione.
 
In questo ambito la visione delle smart cities sembrerebbe essere il paradigma più adatto, ma ciò è vero solo parzialmente. Uno dei problemi è ad esempio che il concetto di smart city viene oggi declinato in ambito quasi strettamente energetico o digitale. Non che il tema non sia rilevante: il consumo di energia è in costante aumento nelle città e ad oggi, in Europa, è responsabile di oltre il 50% delle emissioni di gas serra. Questo fenomeno dà alle città un ruolo guida nei mutamenti climatici ed è evidente che il riequilibrio debba partire proprio da qui. E sull’importanza del digitale sono stati versati fiumi di inchiostro.
 
Ma questi due aspetti non rappresentano la totalità (e spesso priorità) delle nostre città. Oltretutto la nostra specificità non può essere banalizzata a un semplice fattore dimensionale; c’è molto di più: ad esempio non solo la già citata presenza diffusa dei centri storici e del patrimonio culturale, ma anche l’integrazione spinta fra cultura e natura, la persistente presenza del mondo artigiano, l’essere organizzate attorno alle piazze e a una mobilità pedonale, il dover convivere con la crescente pressione antropica del turismo delle città d’arte. Per sottolineare questi aspetti l’Anci ha recentemente lanciato – con un importante convegno – un “progetto-Paese per le città ad alto potenziale di innovazione”.
 
Serve quindi una nuova sensibilità e cultura della progettazione che unisca gli approcci della semplificazione, supporto e – dove applicabile – automazione dei processi urbani proposti dai grandi player dell’Ict con strumenti per la tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale che vedono nel nostro Paese l’humus per essere elaborati e sperimentati sul campo. Potremmo dire una via italiana che crei città non necessariamente intelligenti ma certamente “ingegnose” e anche un poco “astute” – argomento tra l’altro di un mio libro in fase di pubblicazione, Città intelligenti? Per una via italiana alle smart cities – in grado di assicurare non solo che l’intelligenza si sposti dalla tecnologia alla città, ai suoi luoghi, ai suoi processi, alle sue infrastrutture – ma che si prenda cura (senza spettacolarizzazioni eccessive e artificiose) anche del loro cuore antico senza però
musealizzarlo o mummificarlo, ma vivificandolo e innestandolo nei percorsi e nelle funzionalità richieste dalla modernità.
 
Questo sforzo pianificatorio dovrebbe creare le condizioni affinché innovazione e tradizione, attività culturali ed economiche, imprenditoria for-profit e iniziative sociali convivano in maniera armonica; dove l’esigenza di una mobilità urbana efficiente e sostenibile si integri naturalmente con grandi aree pedonali, dove il controllo dell’inquinamento e la chiusura al traffico automobilistico dei centri (storici) riproponga la validità della città a misura d’uomo – che ha visto la sua genesi e soprattutto il suo pieno sviluppo nell’area mediterranea – dove l’agorà e i “centri commerciali naturali” (e non le highway e lo shopping mall integrato con i parcheggi per le auto) siano il centro naturale della città. Le smart cities sono il capitolo contemporaneo del pensiero utopico legato alle città che però – a ben guardare – è forse più distopico, perché ipotizza città fuori controllo che richiedono sofisticati sistemi automatici di governo e monitoraggio. C’è dunque molto da imparare nel ripercorrere sogni e delusioni delle città ideali, per evitare – nel XXI secolo – di cadere in antichi trabocchetti.
 
Queste visioni distopiche sottendono anche un pensiero apocalittico che è stato più volte poco efficace nel cambiare in maniera sostanziale le opinioni del grande pubblico (e della politica) e oltretutto può introdurre “interferenze di mercato”, creando corsie preferenziali per la nuova categoria dei fornitori/salvatori.
 
Si deve invece riprogettare il futuro delle città, partendo dalle loro specificità e vocazioni e costruendone una visione desiderabile e praticabile, una “via italiana” alle smart cities. In questo processo le nuove tecnologie sono essenziali, ma esse devono ritornare ad essere strumenti (e non fini) e vanno comprese in profondità, per coglierne con chiarezza non solo i benefici e le opportunità, ma i lati problematici e le ombre.
 
Infine, troppo spesso la città che viene letta dall’approccio smart cities è esclusivamente la “città che consuma” e la “città da amministrare” (per questo motivo è solo il sindaco che viene visto come il riferimento naturale per le riflessioni sulle smart cities). Ma esiste una terza dimensione – sempre più importante – ed è la “città che produce”, spinta dall’esplosione dell’economia dei servizi (che vale quasi il 70% del Pil) e da una nuova stagione della cultura artigiana, che trasformano la città nel cuore della nuova economia.
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