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Perché la Grecia non deve uscire dall’euro

I saggi dell’economia globale lo dicono da sempre: per salvare l’euro ci vogliono misure radicali. Più di recente, l’Ocse ha invocato un firewall per l’Europa (un maxi fondo di salvataggio per governi e banche in crisi). Altri hanno invocato l’integrazione fiscale e finanziaria dell’eurozona, liberandosi dei membri più deboli come la Grecia, alle prese con una moneta (troppo) forte. Ma i firewall, per quanto alti, l’unione fiscale, l’omogeneità dei membri non sono condizioni necessarie – né, tantomeno, auspicabili. C’è bisogno di meccanismi in grado di riconoscere e gestire le differenze, piuttosto che di tentativi di imporre dall’alto una misura standard.
 
Tutti i governi, perfino quello tedesco, tendono a spendere più di quanto ricavano dal gettito fiscale, e a nascondere i buchi con giochi di prestigio contabili. I trattati, da soli, non producono una fiscalità virtuosa. L’idea che tutti i Paesi dell’eurozona avrebbero obbedito a regole miranti a contenerne il budget è stata la grande illusione associata alla nascita dell’euro. Gli Stati sovrani non si indebitano oltre il segno da soli: l’eccesso di debito sovrano è stato reso possibile da prestatori che hanno dimenticato come esso sia per molti versi simile, e in alcuni casi peggiore, del debito privato non garantito o delle obbligazioni-spazzatura. I governi non dispongono di garanzie collaterali o di clausole di salvaguardia contro le spese eccessive. Come ha dimostrato la debacle greca, gli Stati sovrani non vengono multati se contravvengono alle regole di bilancio. Non ci sono né procedure codificate che costringano uno Stato a ripagare i creditori, né sedi legali per la rinegoziazione del debito.
 
Chi acquista debito sovrano, dunque, deve essere estremamente cauto, evitando i debitori spendaccioni o chiedendo rendimenti più alti per controbilanciare i maggiori rischi. Con o senza un trattato, i deficit saranno rimessi sotto controllo da meccanismi che rendano costoso o impossibile indebitarsi in eccesso. Sfortunatamente, le banche hanno consentito un ricorso eccessivo al debito sovrano da parte di governi irresponsabili, accettando rendimenti solo di poco superiori a quelli richiesti dai Titoli di debito di governi più prudenti. Il crollo del 2008 avrebbe dovuto essere un forte campanello d’allarme in questo senso.
 
Invece, le banche hanno accumulato indiscriminatamente debito sovrano, e i regolatori, assai poco saggiamente, le hanno incoraggiate, permettendo loro di detenere debito sovrano senza riserve di capitale che riflettessero adeguatamente il rischio. In realtà questi titoli in portafoglio hanno consentito alle banche di raggiungere più facilmente i requisiti di liquidità. Non sorprende che si siano concentrate sul segmento più redditizio di titoli di Stato, senza chiedersi se gli extra-rendimenti giustificassero il rischio assunto. Il ricorso indiscriminato al debito ora mette a rischio la solvenza delle banche in tutto il mondo. Ma, per tutta risposta, gli organi ufficiali hanno continuato a chiudere un occhio sulla differenza tra debito rischioso e debito sano. La Banca centrale europea ha prestato denaro alle banche senza guardare alla solidità dei titoli sovrani in portafoglio, con ciò accumulando debito che mette in pericolo la sua stessa solvibilità.
 
I fondi di salvataggio sono stati creati per acquistare debito a rischio. Sebbene gli acquisti siano serviti per dare una temporanea spinta ai prezzi, non cambieranno la dura realtà dell’iperindebitamento. Il campo a favore di una maggiore integrazione vorrebbe che i governi europei si dessero esplicitamente e reciprocamente garanzie sul debito. Tale meccanismo potrebbe eliminare i differenziali di rischio e di rendimento; ma sebbene alcuni governi (come la Germania) siano abbastanza in buona salute, le loro risorse non sono infinite. Mettere sotto pressione le finanze di questi Paesi per riportare fiducia sui mercati difficilmente darà i risultati sperati. Inoltre, qualsiasi proposta concreta di unione fiscale è destinata a naufragare in partenza.
 
Pochi europei sono entusiasti all’idea di trasferire il gettito ad un’unica autorità fiscale. Addirittura vi sono formazioni regionali in Spagna, Italia e Belgio che vorrebbero maggiore devoluzione all’interno degli Stati nazionali. E anche se fosse possibile questa integrazione, gli esempi offerti da Stati Uniti e Giappone non garantiscono certo che un’Europa integrata a livello finanziario abbia poi i caratteri sobri della Germania piuttosto che quelli rilassati della Grecia. Secondo l’ex presidente francese Nikolas Sarkozy “non ci può essere una moneta unica senza convergenza economica”. Eppure, il dollaro ha costituito un mezzo di scambio negli Stati Uniti per circa 150 anni nonostante enormi differenze regionali tra Silicon Valley, la Cintura della ruggine e la zona dei pozzi. E i dollari sono usati anche nelle transazioni interne a Paesi ben lontani dagli Stati Uniti, come Israele e Russia.
 
Differenze tra condizioni di individui e imprese all’interno e attraverso i confini nazionali sono inevitabili. Tutti quanti – che siano in salute o in difficoltà, vicini o lontani – devono poter usare un comune strumento per gli scambi. Come le misure standard, le monete devono servire a modulare e contenere gli squilibri, non ad eliminarli. L’economia greca non era “inadatta” a entrare nell’euro nel 1999, proprio come nulla è così pesante da non essere misurabile in chili. Ecco perché ridurre le dimensioni dell’eurozona, escludendovi i membri deboli riflette ancora un’insensata preferenza per l’uniformità. I governi, in fin dei conti, non potrebbero indebitarsi troppo senza ricorso al credito internazionale. Sono gli acquisti indiscriminati – non la fine della dracma – ad aver imposto alla Grecia un peso intollerabile. E uscire dall’euro non ridurrà questo peso, né le perdite delle banche francesi e tedesche.
 
La soluzione meno terribile richiede un calcolo onesto che porti alla cancellazione dei debiti che non possono essere ripagati e alla ricapitalizzazione delle banche insolventi. Bisogna procedere Paese per Paese e banca per banca, per separare il grano dal loglio.
 
Docente presso la Fletcher School of law and diplomacy of Medford University e autore di A call for judgment
 
© Project Syndicate 2012. Traduzione di Marco Andrea Ciaccia


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