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La sfida parte dalle città

La città non smette di espandersi. La maggioranza della popolazione mondiale vive nelle città e la tendenza è irreversibile. Ma di che città si tratta? Ho proposto alcune nozioni per descrivere ciò che potremmo chiamare l’urbanizzazione del pianeta, che corrisponde grosso modo a ciò che chiamiamo globalizzazione quando ci riferiamo al mercato.
 
Da questo punto di vista, potremmo dire che il mondo è come un’immensa città. Paul Virilio ha utilizzato, a questo proposito, l’espressione di “meta-città virtuale”. Il “mondo città”, come l’ho chiamato io, è caratterizzato dalla mobilità e da una progressiva “uniformatizzazione”. Da un lato, le grandi metropoli si estendono e in esse si trovano tutte le diversità del mondo (etniche, religiose, sociali, economiche), ma anche tutte le sue divisioni.
 
Così, si può opporre la “città-mondo”, le sue divisioni, i suoi punti di ancoraggio e i suoi contrasti, al “mondo-città” che ne costituisce il contesto globale e che spettacolarmente pone su qualche punto forte del paesaggio urbano il suo marchio estetico e funzionale: grattacieli, aeroporti, centri commerciali o parchi di divertimento. Più questa grande città si estende, più si “decentra”. I “centri storici” diventano musei visitati dai turisti arrivati da fuori e luoghi di consumo di beni di lusso di tutti i tipi. I prezzi sono alti e il centro delle città è sempre più abitato da persone benestanti, spesso di origine straniera. L’attività di produzione si sposta extra muros. I trasporti sono il problema principale dell’agglomerato urbano. Le distanze sono spesso considerevoli tra il luogo di abitazione e il luogo di lavoro. Il tessuto urbano si estende lungo vie di circolazione, lungo i fiumi e le coste.
 
In Europa le periferie urbane si fiancheggiano, si saldano, si confondono e può farsi strada l’impressione che, con la generalizzazione dell’urbano, stiamo perdendo la città. Ritorno per un istante su una distinzione che feci anni fa tra luogo e nonluogo. Questa distinzione posa su una definizione teorica: un luogo è uno spazio nel quale si possono decifrare le relazioni sociali che vi sono inscritte (per esempio, in alcuni villaggi tradizionali, a partire dalla divisione in quartieri, dalle regole di residenza e dalla collocazione nello spazio di simboli della storia e della cultura condivisa); un nonluogo è uno spazio dove quest’opera di decodifica è impossibile. Empiricamente, non esistono luoghi o nonluoghi nel senso assoluto del termine, ma possiamo individuare nella moltiplicazione degli spazi di circolazione, di consumo e di comunicazione, gli elementi che caratterizzano il mondo globalizzato di oggi: luoghi di passaggio in cui il decifrare gli elementi costitutivi di un luogo è meno evidente, e dunque in questo senso nonluoghi.
 
Evocare questi due estremi significa definire allo stesso tempo la posta in gioco di ogni politica democratica: come salvare il senso sociale senza uccidere la libertà individuale e viceversa? Nel mondo globale, la risposta si pone in termini di spazio: ripensare il locale. Malgrado le illusioni divulgate dalle tecnologie della comunicazione, dalla televisione a Internet, viviamo lì dove viviamo. L’ubiquità e l’istantaneità restano metafore. Come conciliare nello spazio urbano il senso del luogo e la libertà del nonluogo? È possibile ripensare la città nel suo insieme e le abitazioni nel loro dettaglio? Una città non è un arcipelago.
 
L’illusione creata da Le Corbusier di una vita centrata sull’appartamento e sull’unità abitativa collettiva ha portato ai casermoni (“barres”) delle nostre periferie, subito abbandonati dal commercio e dai servizi che avrebbero dovuto renderli eminentemente vivibili.
 
Si è trascurata la necessità della relazione sociale e del contatto con l’esterno: è proprio questa esigenza che, a modo loro, i giovani delle periferie esprimono quando si spostano regolarmente dai bassifondi dei loro quartieri popolari verso i quartieri del centro che sono al tempo stesso il cuore della città storica e i simboli della società dei consumi: per esempio, nell’agglomerato parigino, verso Champs Élysées o il quartiere Chatelet – Les Halles. Cosa nelle città reali può evocare qualcosa che potremmo considerare come la città ideale? Mi vengono in mente due esempi. Li idealizzo certamente, ma l’esercizio è precisamente questo: trovare delle tracce dell’ideale. Il primo esempio, di gran lunga il più convincente, è quello delle città di medie dimensioni del nord Italia, Parma o Modena, per esempio. Nel centro di queste città la vita è intensa, la piazza pubblica resta un luogo d’incontro, si circola in bicicletta, si cammina naturalmente lungo luoghi di rilevanza storica.
 
Altro esempio: la vita di quartiere in un arrondissement parigino. Potremmo fare molti altri esempi, sappiamo che nelle più grandi metropoli del mondo (Città del Messico, Chicago) esistono forme di vita locale molto vivaci. La vita di quartiere è quella che si può osservare nelle strade, nei negozi, nei bar… si tratta di piccole forme di resistenza all’isolamento che sembrerebbero provare che l’esclusione, il ripiegamento su se stessi e il rifiuto dell’immaginazione, non sono una fatalità. Cosa possiamo concludere da questi segni sparsi? Che ogni programma generale e ogni progetto nel dettaglio dovrebbero associare riflessioni di genere diverso: una riflessione da urbanista sulle frontiere e sugli equilibri interni al corpo della città; una riflessione da architetto sulla continuità e le rotture dello stile; una riflessione antropologica sulle abitazioni odierne che deve conciliare la necessità di aperture multiple sull’esterno e il bisogno di intimità privata. Un ampio cantiere di “rammendi” (nel senso che gli davano le sarte un tempo, le “magliaie” che “riprendevano” i vestiti strappati e le calze smagliate).
 
Bisognerebbe, per quanto possibile, tracciare di nuovo le frontiere tra i luoghi, tra l’urbano e il rurale, tra il centro e la periferia. Delle frontiere, cioè delle soglie, dei passaggi, delle porte ufficiali per far saltare le barriere invisibili dell’esclusione implicita. Bisogna restituire la parola al paesaggio. Per concludere, torno all’immagine della sarta, o meglio della magliaia. Una metafora che serve a ricordarci che tutto comincia e tutto finisce con l’individuo più modesto e che le imprese più grandi sono vane se non lo riguardano almeno un po’.
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