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Piccole imprese: come sopravvivere alla crisi

La crisi economica globale che stiamo vivendo si è manifestata con una virulenza inusitata in tutto il mondo occidentale e comincia anche a lambire, sia tramite la diminuzione dell’interscambio commerciale sia per gli effetti specificamente monetari e finanziari, la Cina e il resto dei Brics, Brasile, Russia, India e Cina, appunto.
Anche in Italia, dobbiamo ripensare, nell’ordine, sia la struttura dell’industria pubblica che la logica del “piccolo è bello”, per usare la formula dell’economista eterodosso Schumacher, e quindi dei distretti industriali e dell’ormai ben noto “popolo” delle partite Iva.
 
La Piccola e Media Impresa, con una somma di aziende di 4,2 milioni, e una quota del 70,8 del Pil nazionale prodotto, è l’asse del sistema economico nazionale, ma sarà proprio questo comparto a subire le trasformazioni più profonde da parte della crisi in atto.
Intanto, la sottocapitalizzazione: gran parte delle imprese italiane ha liquidità scarsa, anche per le normali attività di esercizio, e se è pur vero che Basilea 2 ha reso possibile il ricorso anche per le PMI al mercato obbligazionario, è peraltro vero che la stessa normativa della Banca dei Regolamenti Internazionali, fondata, lo ricordiamo, per gestire il Piano Dawes per le riparazioni della Germania dopo la sua sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, rende decisamente più complesso, quando non impossibile, il ricorso al credito bancario di rischio per le PMI italiane.
 
Soluzioni possibili? Costringere le grandi aziende, cattive pagatrici verso i loro fornitori, a velocizzare trasferimenti, mentre lo Stato, con la normativa recentissima del governo Monti sul pagamento in titoli del debito pubblico ai suoi creditori, sta andando nella giusta direzione.
E’ vero che noi siamo il primo produttore di beni di lusso, che il Made in Italy è in espansione in tutto il mondo, ma è anche vero che la quota di tutte le nostre esportazioni è in calo costante da due anni, e questo prima o poi, grazie anche alla crisi economica globale, influenzerà anche il nostro Made in Italy. Poi, vi è anche un’altra questione da affrontare: la tecnologia e il valore del lavoro.
Ci stiamo inserendo sempre di più in settori produttivi a basso valore aggiunto, in cui l’unica soluzione, per far sopravvivere l’azienda, è quella di comprimere fino ad oltre il sopportabile il costo del lavoro e se i salari sono spesso intollerabilmente bassi, quando ci sono, come si svilupperà il mercato interno, che è il vero polmone di una economia moderna?
 
E se non avremo un mercato interno degno di questo nome, come si manterrà quel welfare familiare e informale che finora ha sostituito spesso uno Stato che si ritraeva dall’assistenza e dagli investimenti sociali per il mantenimento al livello standard della forza-lavoro?
Ecco altri due problemi che avremo in Italia nella fase cruciale della crisi e in quella di lenta ripresa.
Nella migliore delle ipotesi, si potrebbe pensare ad una nuova rete di distretti industriali, magari più interconnessi tra di loro, che viene sorretta da una rete di imprese globali che penetrano i mercati con prodotti innovativi non solo nell’immagine e nel valore immateriale, ma anche nella tecnologia.
Se si vuole sviluppo, come tutti oggi dicono, stiamo parlando di un altro termine per la tecnologia innovativa, che moltiplica il valore del lavoro e, soprattutto, non permette ad altri di imitare i nostri prodotti.
Nella peggiore delle ipotesi, avremo una economia dove i vecchi distretti perdono rilievo e quote di mercato, con un impoverimento di massa che non permetterà di riversare nel mercato interno la sovrapproduzione relativa dei distretti ancora attivi nell’export.
Crisi dei redditi, crisi fiscale dello stato, default non dell’Euro, ma dei prodotti italiani denominati in Euro, il “progetto napoleonico” di una Europa nella quale la concorrenza tra i Paesi che la compongono aumenterà, fino a superare quella che si verificava prima dell’adozione della moneta unica.
 
Sul piano politico, è bene forse stabilire un concetto di fondo: il regionalismo o il federalismo non sono necessariamente la formula ottimale per una economia diffusa come quella italiana dove, casomai, occorrono reti finanziarie e di protezione non tariffaria dei nostri prodotti almeno a livello nazionale, visto che la nostra concorrenza si chiamerà Cina, Brasile, India, Federazione Russa, Maghreb, e queste sono aree che potrebbero spazzar via un distretto federalizzato come
un fuscello al vento.
La questione vera, qui, è quella di leggere con lenti nuove la questione delle Piccole e Medie Imprese.
In Italia, oggi, le PMI che hanno introdotto, a giudicare dai dati della UE, innovazioni di prodotto o di processo raggiungono il 35% del totale delle imprese.
In altri termini, le PMI reagiscono al mercato e talvolta lo creano, mentre le grandi imprese di solito, oggi, si occupano di prodotti “maturi” che il sistema di fabbrica riesce ancora a rendere economicamente razionali per essere prodotti, come è il caso dell’automobile.
 
Ma, ricordiamoci, la dimensione produttiva dell’Italia sarà sempre di più nei prodotti ad alto valore aggiunto, o ad alto “claim” pubblicitario per consumatori di nicchia, e pensiamo a certi artigiani dell’abbigliamento, mentre le produzioni di massa che hanno caratterizzato i “trenta gloriosi” dello sviluppo economico postbellico saranno sempre più assorbiti dai paesi “in via di sviluppo”.
Anche noi lo eravamo negli anni ‘50, e quindi, per usare un criterio che vale sia per la teologia che per l’economia, “niente è nuovo sotto il sole”, come sostiene del tutto ragionevolmente l’Ecclesiaste, il Qohelet, al versetto 1,9.
Manca nel sistema delle PMI una linea “organizzata” sul credito. I centri decisionali che aprono, sempre di meno, i cordoni della borsa sono lontani, spesso non capiscono di impresa, vedono solo, con lo sguardo ironico dei geometri di provincia, gli “immobili”.
D’altra parte, ci si riferisce che 25 mila Piccole e Medie Imprese in Italia, in questo anno, andranno in default. Occorre separare, in questo caso, il manifatturiero dal turistico o dall’artigianale.
Ed è anche necessario tutelare, nella PMI italiana del futuro, il lavoro dipendente e il suo meccanismo di stabilizzazione formativa, proprio perché non dobbiamo avere a che fare con aziende che, tra la “mala” delle canzoni di Strehler o di Gaber fanno solo il verso al cinese, imbattibile nel suo schiavismo totale, il quale produce beni, proprio qui, a bassissimo costo e a larga, purtroppo, diffusione di
massa.
 
Se le PMI italiane vorranno avere un futuro, occorrerà anche proteggere il marchio, il brand nazionale con criteri nuovi, che non sono quelli del testimonial dei vecchi marchi, che ormai o sono morti o stanno andando all’estero, ma con una agenzia pubblica che insegni alle Piccole e Medie Imprese a creare, oltre che il loro mercato, anche una “immagine” omogenea e positiva, sul modello dell’ Ufficio sulla Swissness fondato pochi anni fa dalla Confederazione Elvetica.
Pensare come sistema nazionale la rete delle PMI, come se fossero, e spesso lo sono, i nostri “campioni nazionali” o i nostri vettori di immagine, elemento irrinunciabile del mercato futuro, sia nei paesi occidentali che in quelli che ormai per un vezzo chiamiamo “in via di sviluppo”.
Due ipotesi, per rompere il cerchio magico del contrasto tra “piccoli” e “grandi” imprese, che è oggi concettualmente irrilevante.
Nel triennio 2012-2014, oltre la metà delle PMI prevede di dover ricorrere a finanziamenti.
I contributi pubblici e privati-bancari, quando ci sono, sono farraginosi e di fatto escludono le piccolissime imprese o anche le medie che hanno un’idea.
Risulta a noi che le richieste di finanziamento delle Piccole e Medie Imprese sono sottoposte ad un massimo di ordini accettati a sconto del 50%, con un costo che è pari al tasso Euribor a sei mesi con un margine che varia da un uno spread minimo di 325 punti ad uno massimo di 600.
Procedura barocca e irrazionale: gli ordini a sconto non sono indici della struttura dell’impresa, che magari può essere molto naïf ma efficace e aggressiva.
 
Pensiamo altrimenti. Immaginiamo un governo e una Banca d’Italia che organizzano uno “sportello PMI”, con incaricati in tutta Italia, che accoglie le richieste di finanziamento delle imprese piccole e medie.
Garanzie? Le fatture da scontare per una quota, da stabilire volta per volte e per tipologia di impresa (è ovvio che dei “web developers”, degli esperti di internet, hanno una forma di attività diversa da quella di un panettiere) e che non devono essere valutate con criteri fissi, come quelli delle norme che abbiamo appena citato, ma con meccanismi che studino la solvibilità dell’emettitore del titolo.
Seconda garanzia, il “Progetto di Impresa” a tre anni, fatto con onestà, peraltro facilmente verificabile, e ragionevolezza nell’inseguire i propri sogni. Che sono, oltre che la sostanza di cui siamo fatti, come giustamente sostiene Shakespeare, anche l’essenza dell’economia.
Riuscite a vedere, in un qualsiasi negozio, un prodotto che non sia il
prodotto di un sogno? Francesco Cirio, proletario di Nizza Monferrato che vende, da ragazzino, gli ortaggi freschi alle porte delle case, e che poi inventerà
le “scatole” per fornire al freddo Nord le primizie dell’orto eterno del Sud? Camillo Olivetti che, da borghese ebreo piemontese, va come assistente di Galileo Ferraris in America alla Stanford University e, al ritorno, si inventa una aziendina di misuratori elettrici, e poi di macchine da scrivere che andrà a vendere personalmente casa per casa? Oppure Gerolamo Gaslini, anch’egli proletario di Monza che, come racconta Giovanni Ansaldo, arriva a Genova e inizia, invece che a programmare la partenza per il Nuovo Continente, a fare quei piccoli affari del porto che lo condurranno, in breve tempo, al commercio degli oli, alle banche, al business alimentare.
Ecco: non c’è niente, nel panorama della “Vecchia Europa”, che non sia nato da una piccola impresa.
E ora vogliono togliere credito e quote di mercato alla PMI, lanciandole nelle fauci della concorrenza impossibile delle “tigri” asiatiche, o nelle maglie quasi più pericolose del credito “razionale” di Basilea 2. Follie.
 
Futura desertificazione industriale, quando le piccole imprese non crescono, le vecchie nonne muoiono senza eredi.
Quindi, ripeto, un Ufficio Bankitalia in ogni capoluogo di provincia che sconti i titoli efficaci, ad una percentuale accettabile e variabile, che sono nel portafoglio crediti delle PMI.
Poi, un ufficio, sul modello della Swissness di Berna, che faccia marketing centralizzato per le piccole e medie imprese della immensa provincia italiana.
Perché un geniale coltellinaio di Voghera, o un esperto prosciuttaio abruzzese, devono essere penalizzati dal “silenzio commerciale” che frustra loro mentre invece favorisce il big business nazionale che, a parte valutazioni sulla qualità dei prodotti, che qui non facciamo, è comunque capace di un formidabile battage pubblicitario che ha dei costi inerpicabili non solo per il piccolo, ma anche ormai per il medio grande imprenditore?
 
Infine, una politica degli aiuti alle imprese che, da parte dello Stato privilegi il piccolo sveglio rispetto al gigante addormentato.
Gli aiuti alle imprese sono regolati dal titolo VI del trattato istitutivo della Comunità Europea. Abbiamo uffici delle Regioni italiane a Bruxelles, spesso pletorici e talvolta inutili.
Se lo fanno, quando lo fanno, difendono le imprese del loro territorio, spesso con un criterio da “quote latte”.
E se invece di queste belle e ricche sedi, ci procurassimo un ufficio, magari un po’ spartano, come quello dei grandi avvocati d’affari della City londinese, che ti ricevono offrendoti una sedia di legno talvolta difettosa, per le PMI italiane, capace di fare serissimo lobbying di settore, come fino ad ora non è mai accaduto?
C’è chi parla oggi di 20 miliardi di Euro di “sofferenze” delle imprese piccole e medie nel 2011, e probabilmente questa è una valutazione ottimistica.
Il 50% delle PMI ha un rapporto debt/equity superiore a 3:1. E allora? Si tratta di liquidizzare quella parte dei crediti che si può ragionevolmente gestire, e di unificare i servizi all’internazionalizzazione delle PMI.
Più Stato e più mercato, quindi, e soprattutto uno Stato che si occupa di protezione non tariffaria con la stessa durezza con cui la fanno i russi, i giapponesi, i cinesi, gli USA.
Il “costo della politica” non è solo un gravissimo problema morale, è uno dei principali blocchi allo sviluppo economico e alla più equa distribuzione di risorse di welfare ormai strutturalmente scarse.
Senza una durissima e rapida riduzione di almeno il 50% del “costo della politica” non avremo alcuna possibilità di risalire la china della crisi economica globale.
Come fare? Intanto, e il sistema è andato avanti dagli anni ‘90 quando di fatto è nato, occorre potenziare il rilievo locale delle varie Authorities, permettendo ad esse di operare direttamente sul territorio dei distretti produttivi.
 
Poi, a mali estremi, estremi rimedi: la vecchia “Banca per il Sud”, una idea di Giulio Tremonti, era giusta.
Occorre un sistema finanziario che opera, fuori dai canali del normale credito bancario, sui territori a più alto rischio di desertificazione produttiva.
Ma perché solo una banca? Si potrebbe pensare ad un “Fondo Speciale per i Distretti Produttivi” che lavora il credito, con criteri di rischio moderni e non con la solita fideiussione immobiliare, per dare alle imprese ormai escluse dal giro bancario un nuovo polmone finanziario.
A questo si potrebbe aggiungere un nuovo ruolo dell’Ufficio Brevetti, che potrebbe anche indicare, per sezioni e per tipologie aziendali, le nuove tecnologie alle aziende, che potrebbero sperimentarle in vivo, ferma restando l’attuale normativa sulla proprietà intellettuale.
E si potrebbe perfino immaginare un sistema universitario, senza troppe burocrazie vecchie e nuove, che va a “vendere” le nuove tecnologie al sistema delle imprese, magari accontentandosi di qualche borsa di studio o di una nuova biblioteca in più.
Insomma, se la necessità aguzza l’ingegno, sarà bene che in questo frangente non la classe politica, ormai irrilevante sul piano propositivo, ma gli stessi cittadini e le imprese si inventino nuove vie di uscita dalla crisi.
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