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Storia di #opencamera

Anteprima del numero di luglio
 
Il 13 ottobre 2011 tra i banchi di Westminster si dibatteva su una proposta di due parlamentari conservatori per vietare il live-tweeting dei lavori d’Aula e delle commissioni: l’utilizzo dei dispositivi mobili e della connessione in rete da parte dei colleghi, spiegavano Roger Gale e James Gray, nuoceva al decoro dell’istituzione. La deputata laburista Luciana Berger, classe 1981, guidava la pattuglia dei resistenti a suon di tweet: l’hashtag #keepontweeting ebbe un buon successo in rete, ma ancora migliore fu l’esito della votazione in Aula, con 206 voti contrari alla proposta e solo 63 favorevoli. Fu una resistenza trasversale e generazionale, non in nome di un partito ma di un’idea di democrazia partecipativa: un Parlamento con porte e finestre aperte sulla piazza, un contatto diretto e in tempo reale tra eletti ed elettori.
 
Quando ho inventato l’hashtag #opencamera, a fine luglio 2011, sentivo lo stesso bisogno: in un periodo di grande allontanamento dei cittadini dalla politica, complice una legge elettorale che mortifica il rapporto fra i parlamentari e i loro collegi, occorreva che fosse la politica a fare un passo in avanti, andando verso i cittadini. Scendendo dal pulpito del comizio e mettendosi in gioco davvero, alla pari, pensando più al servizio pubblico che non alla promozione personale, perché quando ti esponi e ci metti la faccia devi anche essere pronto a prenderti qualche schiaffo. Ma naturalmente sapevo di non poterci riuscire da solo, e così ho cominciato a coinvolgere diversi colleghi, di vari schieramenti.
 
Oggi #opencamera è un progetto che cammina con le sue gambe e che resisterà anche alla morte del suo fondatore: siamo ormai in molti a raccontare in tempo reale cosa accade in Parlamento, e i nostri diversi punti di vista non fanno che rendere lo strumento ancora più democratico. In alcuni casi siamo l’unica fonte di informazione disponibile: penso ai dibattiti in Aula, in cui la diretta via radio o quella sul canale della Camera dei deputati (che ha solo due inquadrature: una su chi parla e una sul presidente) non dicono molte altre cose, tipo il numero dei presenti o i vari commenti – a volte più interessanti degli stessi interventi – che nel resoconto stenografico non compariranno, perché difficili da sentire; per non parlare dei lavori in commissione, che sono spesso ignorati dai mass media tradizionali e che invece affrontano problemi concreti.
 
Il livetweeting è quella porta aperta sul Paese reale, e non è raro – anzi, è sempre più frequente – che il flusso di comunicazione sia bidirezionale, con i cittadini pronti a segnalare problemi o a chiedere spiegazioni sui provvedimenti votati. L’ultimo caso che mi viene in mente è quello delle borse di studio per gli specializzandi: la tassazione mi fu segnalata proprio su Twitter, e 20 minuti dopo era già pronto l’emendamento per rimediare alla disciplina di controversa interpretazione approvata dal Senato.
 
Basterebbe già questo, ed è davvero un riassunto per titoli, a spiegare le enormi potenzialità di Twitter (e della rete, in generale) nella riduzione dello spread tra politica e cittadini. Ma come tutti gli strumenti, dipende sempre dal modo in cui lo si utilizza: non c’è cosa peggiore, a mio modo di vedere, di un account fatto gestire completamente da un ufficio stampa, che non interagisce con nessuno e che si limita a rilanciare comunicati o comunque a intasare i social network di propaganda. Meglio non averlo, a quel punto: la specificità del mezzo sta nell’annullamento dei famosi 6 gradi di separazione, che nel caso della politica significa – senza nulla togliere all’attività nel territorio, ci mancherebbe – rendere più diretto il contatto con i propri rappresentanti; un account impermeabile alle interazioni, da questo punto di vista, è più dannoso che utile.
 
Certo, non è facile trovare un equilibrio: da un lato un ambiente abbastanza insidioso, così informale da assomigliare a una comunità di amici pur non essendolo, e dall’altro il ruolo istituzionale che comunque ricopri, e che spesso ti limita nelle reazioni “di pancia”. Non è solo una questione di battute da osteria, che a volte ti scapperebbero se fossi un cittadino comune e che invece devi controllare, ma anche di rispetto nei confronti del tuo stesso partito: a volte sarebbe conveniente passare per il Pierino della situazione, prendendo le distanze dalle scelte impopolari e concentrandosi sulla raccolta di consenso, ma non sarebbe giusto.
 
La tattica di alcuni miei colleghi, che sui social network fanno incetta di popolarità personale cavalcando il risentimento anticasta, è miope e danneggia soprattutto gli uomini di buona volontà, che pure non mancano: è vero che per distruggere basta un tweet e per ricostruire a volte non basta un trattato, ma io continuo a credere che alla fine – anche in rete – paghi la serietà e la presenza costante, come del resto ho avuto modo di sperimentare molte volte.
 
Ne cito una, che mi è rimasta impressa: al termine di una delle varie dirette dall’Aula, qualche mese fa, un deputato (il primo twitterer italiano per popolarità, davanti a Fiorello, che non si era ancora stancato delle critiche e dei disturbatori, a Jovanotti, al sito di la Repubblica, a Valentino Rossi e ai Negramaro) riceveva messaggi di ringraziamento («Con le tue cronache, mi sembra di essere alla Camera insieme a voi») solo perché stava facendo il proprio dovere, in un’Italia che secondo me ha ancora fame di politica. Ma di politica bella, trasparente, a portata di mano. Di case di vetro e non di torri d’avorio.
 
Di rappresentanti che ci mettono la faccia e che non hanno paura di rispondere alle domande del proprio datore di lavoro. “Non è su Twitter che si costruisce la democrazia”, tuonò una volta in Aula il leghista Polledri, così allergico ai social network da aver minacciato fisicamente il democratico Ferrari per un tweet poco gradito. Io credo invece che la democrazia sia come l’acqua: basta una fessura, come Twitter, e ci si infila dentro.


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