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Distrazioni di massa

Un mondo perfetto. Quello della rete secondo i pionieri della grande rivoluzione digitale. Un luogo in cui l’economia sarebbe stata finalmente libera dai lacci del potere politico, le informazioni a disposizione di ciascuno, gli individui tutti sullo stesso piano.
 
Tanto che il celebre informatico Licklider si spingeva a parlare di un potere, quello offerto dai computer, che dato al popolo si sarebbe rivelato “essenziale alla realizzazione di un futuro in cui la maggior parte dei cittadini sia informata, interessata e quindi coinvolta nei processi governativi”.
 
Ma, in contrasto con tale visione agiografica, fin dalle origini della rete erano presenti delle contraddizioni evidenti: essa nasceva invero per nascondere informazioni (ai servizi segreti sovietici durante la Guerra fredda), non certo su iniziativa della libera economia bensì del Pentagono (con tanto di massicci fondi statali), non con l’idea che si diffondesse presso il popolo, ma perché venisse utilizzata da una ristretta tecno-élite al servizio del governo. Ma è ancora di più nella nostra epoca che vale la pena riflettere criticamente, perché, come diceva McLuhan, con queste tecnologie elettriche ci troviamo di fronte a una forma di potere persino più efficace dei totalitarismi di Hitler e Stalin, perché in grado di entrare nelle nostre case, di violare la nostra sfera intima e modificare le nostre menti.
 
Sì, perché la mente umana e gli impulsi che essa invia al corpo si modificano in base anche agli oggetti che l’uomo utilizza per fare esperienza del mondo in cui vive. Un semplice martello modifica l’utilizzo che possiamo fare del nostro braccio, che è soltanto quello di martellare finché lo teniamo in mano. Figuriamoci allora il grado di alterazione neuronale che possono provocare queste nuove tecnologie così potenti e pervasive, che ormai svolgono il ruolo di intermediari imprescindibili fra noi e i molteplici aspetti della realtà. Pensiamo all’incredibile mole di informazioni di ogni tipo con cui ci investe la rete, in assenza totale di filtri o certificati di qualità e con una velocità e una frammentazione che superano di gran lunga le nostre capacità di cogliere, elaborare e immagazzinare tutti questi dati. Senza contare la quasi impossibilità di pervenire a una qualunque visione di insieme che fornisca rigore logico e cronologico a questa marea di bit: si tratta di quel “metodo odierno” del potere che era stato intuito dal filosofo Günther Anders, per cui “veniamo sopraffatti da una tale abbondanza di alberi affinché ci venga impedito di vedere la foresta”.
 
Già Platone ci aveva insegnato che le malattie degli occhi, per cui risultano accecati, sono di due tipi e hanno due cause: “Il passaggio dalla luce all’ombra e dall’ombra alla luce”. L’eccesso di luce, allo stesso modo della sua totale assenza, produce un individuo incapace di pervenire alla conoscenza, condannandolo alla pallida percezione di ombre scambiate per oggetti reali. Se il potere un tempo riusciva a nascondersi grazie alla censura o alla protezione di un apparato poliziesco, oggi ottiene il medesimo risultato grazie a questa luce abbagliante di cui parlava Platone, cioè grazie “all’opulenza informativa” che ci informa su tutto, ma non ci fa conoscere davvero nulla.
 
Senza contare la radicale forza di distrazione di cui è capace la rete, di cui Google costituisce un esempio lampante, poiché con le sue dinamiche di funzionamento, favorisce tutto tranne che la lettura fatta con calma o il pensiero lento e concentrato. Di vero e proprio “business della distrazione” parla lo psico-neurologo Nicholas Carr, spiegando che l’influsso dei molteplici e contrastanti messaggi che arrivano dalla rete non soltanto sovraccarica la nostra memoria di lavoro, ma rende anche molto più difficile per i lobi frontali concentrare l’attenzione su un unico oggetto.
 
Insomma, più usiamo il web e più alleniamo il nostro cervello alla distrazione, mentre il web non si distrae per nulla da noi, anche e soprattutto quando siamo offline o lontano dal nostro pc, come testimoniato dal fenomeno dei clickstream, ossia i residui delle nostre esistenze nel cyberspazio. Fenomeno per cui, non a caso, manifestano grandissimo interesse tutti i motori di ricerca che vogliono conoscere le intenzioni e i gusti del pubblico per scopi commerciali, ma anche i governi, come nel caso dell’Usa patriot act, che a seguito dell’11 settembre 2001 consentiva al governo americano di imporre a Google di svelare, su richiesta degli agenti governativi, tutte le informazioni segrete contenute nel database del motore di ricerca. Cioè tutti i movimenti e le richieste degli utenti della rete!
 
C’è poi l’aspetto per cui, di fatto, nella maggior parte dei casi non incontriamo (e spesso conosciamo) più le persone direttamente, ma ci adeguiamo ai tempi e alle modalità (necessariamente impoverite) dei nuovi media, restando in buona sostanza chiusi all’interno delle quattro mura domestiche.
 
Con quello strano senso di onnipotenza che ci è dato dalla possibilità di superare le barriere spazio-temporali, di padroneggiare con un clic tutto il vasto ambito dello scibile umano, mentre in realtà ci siamo consegnati a una tecnologia che pensa, vede, incontra, si informa ed elabora al posto nostro. E che sempre di più possiamo dire che vive al posto nostro.
 
Tutto questo è tanto più vero per la cosiddetta net-generation, i ragazzi nati dal 1995 in poi, cresciuti fin dall’infanzia a pane e web. Dovrebbe far riflettere il fatto che ci troviamo di fronte alla prima grande invenzione umana per la quale non è stata prevista alcuna formazione nei confronti dei giovanissimi, abbandonati al virtuale senza alcuna preparazione.
 
Insomma, sempre più il sogno di un mondo perfetto (virtuale) in cui regna la libertà assoluta, sembra presentare i contorni rischiosi di un regno dell’anarchia cialtronesca, in cui a governare è quell’ultimo Dio che l’uomo si illude essere al suo servizio. Ma di cui è invece schiavo inconsapevole.


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