Diceva il filosofo norvegese Jobtein Gaarder: “Non devi mai piegarti ad una risposta. Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle. Solo una domanda può puntare oltre”.
All’alba della più grande crisi dal noto e dolente 1929, e dal momento che i Soloni dell’economia o hanno sbagliato previsioni o non le hanno nemmeno tentate, non ci resta che porci domande e rilievi, tentando di essere insolenti ma quantomeno più efficaci di silenzi o tenui prese d’atto. Il polverone sollevato sulla riforma della legge elettorale certamente ha cause ben precise, non fosse altro che per cassare quel porcellum oggi odiato da tutti i soggetti politici (e a ragione), ma ieri votato all’unanimità. Quindi ben venga una rapida intesa tra i partiti che riesca a sbloccare, in nome della governabilità sul modello francese o tedesco, un paese che semplicemente non procede a passo spedito.
Ma a proposito di domande, la medesima veemenza con cui la politica, tra vertici fiume e riunioni carbonare, si sta impegnando per il sistema con cui si voterà nel 2013 sarebbe dovuta essere impiegata con analoga convinzione per il vero traguardo italiano: quella riduzione della spesa pubblica che rappresenta al momento l’unica speranza per uscire indenni dallo tsunami economico e finanziario che potrebbe cancellare l’Unione con un semplice tratto di penna.
Abbattere quella voce di spesa italiana significherebbe non solo dare fiato alla credibilità del paese di fronte agli investitori (si rammenti che entro l’autunno il Tesoro dovrà piazzare 218 miliardi di titoli di stato), quanto investire sulle sopravvivenza futura delle amministrazioni locali e dello stato centrale. Che se da un lato sta spremendo oltremodo contribuenti e tessuto imprenditoriale, dall’altro versante dovrebbe riflettere su quanto una mancata crescita danneggi anche in prospettiva mercati. Meno spesa pubblica vuol dire anche più risorse da destinare fruttuosamente alle pmi, a quei compartimenti dell’Italia che boccheggiano causa mancata circolazione di denaro. Non solo il popolo delle partite iva che non riesce a utilizzare quel peculiare status, ma anche i settori strategici del paese che sono in apnea: il manifatturiero, l’artigianato, il tessile, la ricerca, la moda.
Angoli di eccellenza italiana che semplicemente non hanno più ossigeno, come dimostrano i rilievi periodici dell’Istat e come si nota scendendo in strada e facendo una rapida ricognizione nei distretti industriali delle principali città italiane, ultima defezione in ordine di tempo è la chiusura a giorni dello storico marchio Richard Ginori.
Quando venti mesi fa Zygmunt Bauman diede alle stampe il suo “Modernità liquida” non intese solo fare un semplice esercizio socio-letterario seppur pregevole, ma forse volle lanciare anche un messaggio di caratura epocale. Dicendo a governi e governanti: attenti, se non comprenderemo come la società è intrecciata liquidamente al sistema politico e di conseguenza alla sopravvivenza dei singoli cittadini e non prenderemo provvedimenti “comuni” e rigidi in quella direzione, non potremo uscire da una crisi che ha sempre più le sembianze di una rottura. Non comprenderlo, oggi, equivale a spingere ancora più vicino al baratro un paese intero.