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#Usa2012 Un’agenda per il mondo G-zero

Anteprima del numero di agosto-settembre
 
La crisi finanziaria del 2008 ha segnato la fine di un mondo. Non si può non notare che, per la prima volta da settant’anni a questa parte, gli Stati Uniti non sono in grado di determinare l’agenda internazionale e di costruire una leadership globale sui problemi fondamentali del nostro tempo. Gli Stati Uniti, al contrario, hanno ridotto la loro presenza all’estero, rinunciando a partecipare al salvataggio dell’eurozona, ad intervenire in Siria, a usare la forza per contenere i progressi nucleari iraniani (nonostante un forte appoggio da parte israeliana a questa opzione). Il presidente Obama ha ufficialmente posto fine alla guerra in Iraq, e sta ritirando truppe dall’Afghanistan a un ritmo compatibile soltanto con la necessità di non perdere la faccia. L’America sta cedendo il bastone del comando, anche se nessun altro Paese o gruppo di Paesi sembrano interessati o capaci di afferrarlo. In poche parole, la politica estera americana è attiva quanto mai, ma è ridimensionata e molto più esigente sulle priorità da seguire. Per questo molte delle sfide globali – il cambiamento climatico, il commercio, la scarsità di risorse, la sicurezza internazionale, la cyber-guerriglia, la proliferazione nucleare, per fare qualche esempio – appaiono sempre più difficili da gestire.
 
Benvenuti nel mondo “G-zero”, un pianeta più turbolento e incerto, in cui il concerto politico globale è solo un ricordo del passato. È questo un ambiente più minaccioso, e paradossalmente meno problematico per gli Stati Uniti, cui anzi vengono concesse nuove opportunità di trarre beneficio dalla propria unica posizione. Il mondo G-zero non è così brutto per l’America, a patto che sappia giocare bene le proprie carte. Molti degli elementi di forza nazionali riprendono centralità in questo contesto. Va riconosciuto infatti che Washington è l’unica vera superpotenza, con un’economia che è ancora due volte quella della Cina e con spese militari che sfiorano la metà del totale mondiale, comunque superiori a quelle degli altri 17 maggiori spender combinati. Il dollaro rimane la riserva valutaria del pianeta, e gli investitori ciclicamente si affannano ad acquistare titoli del debito Usa, fin da quando la crisi del 2008 ha messo in evidenza lo status di “porto sicuro” degli Stati Uniti (perfino durante crisi da loro stessi generate!).
 
Ugualmente, gli Usa continuano ad essere all’avanguardia nell’imprenditoria, nella ricerca e sviluppo, nell’istruzione secondaria e nell’innovazione tecnologica. Inoltre, sono oggi i maggiori produttori di gas naturale ed esportatori di calorie alimentari, il che riduce la vulnerabilità agli shock di prezzo o alle penurie di cibo.
Nessun altro Paese può sfidare gli Stati Uniti sul fronte della promozione dello Stato di diritto, della democrazia liberale, della trasparenza e della libera impresa. Altri
Paesi certamente fanno propri questi valori, ma solo l’America ha la volontà, la capacità e le risorse per far sì che essi prevalgano. Ecco perché, mentre diminuisce l’offerta di leadership a stelle e strisce, sempre maggiore sarà la domanda di America. Si prenda per esempio l’Asia. Mentre cresce il peso economico e l’influenza regionale della Cina, i suoi vicini cercano di approfondire le relazioni con gli Stati Uniti. Di recente il Giappone, l’Australia, l’Indonesia e Taiwan hanno tutti formalizzato accordi commerciali e di sicurezza con Washington. Perfino la Birmania è entrata in questo gruppo, riallacciando le relazioni diplomatiche con l’America nel tentativo di uscire dall’ombra di Pechino. In altre parole, in un mondo senza concerto di potenze, un ambiente internazionale sempre più competitivo aumenta l’appeal degli Stati Uniti presso i Paesi che cercano di tenersi le mani libere. E gli Stati Uniti possono agire in modo più finalizzato ai propri interessi. Riducendo la loro offerta di leadership, essi possono infatti valutare il costo-opportunità di un intervento, e scegliere i settori e le circostanze che offrono maggiori possibilità di successo. In questo contesto, l’intervento militare in Libia non costituisce un precedente per la Siria.
 
Resta da vedere quanto gli Stati Uniti riusciranno a far fruttare queste opportunità. In realtà il conseguimento dei vantaggi di breve termine è, per Washington, il maggiore ostacolo per le prospettive di lungo periodo. È la “maledizione da porto sicuro”, se così si può dire: nella misura in cui l’America resta un rifugio per qualsiasi tempesta, non è stimolata a correggere i propri limiti. Per esempio, nonostante tutte le preoccupazioni per il debito pubblico a stelle e strisce, gli investitori continueranno a finanziare il mercato monetario Usa. Nel lungo periodo, però, il legislatore dovrà compiere progressi sostanziali per riportare fiducia nella tenuta del sistema fiscale nazionale, dovrà cioè tagliare programmi assai cari al mondo politico come sicurezza sociale, Medicare e spese militari. Bisognerà mettere da parte le motivazioni di breve periodo e le obbedienze di partito per rilanciare un’infrastruttura economica obsoleta, riformare l’istruzione e la politica di accoglienza degli immigrati, e perseguire un consolidamento fiscale di lungo termine.
 
I vantaggi che l’America trarrà dal nuovo mondo G-zero le consentiranno di investire nel suo futuro. Ma gli stessi vantaggi, offrendo un comodo cuscino contro i rischi più gravi, le potranno consentire di procrastinare le soluzioni necessarie. I politici americani devono riconoscere la nuova realtà di competizione internazionale e ricostruire le fonti della potenza nazionale, anche gradualmente. Se ci riusciranno, gli Usa avranno la forza e la flessibilità per forgiare il nuovo ordine globale. Il sistema politico statunitense in genere lavora bene nelle situazioni critiche. Grazie al vantaggio accumulato e spendibile in un mondo senza timone, gli Stati Uniti non devono attendere una crisi per entrare in azione. Devono solo saper cogliere il momento.
 
© Project Syndicate 2012. Traduzione di Marco Andrea Ciaccia


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