I mercati finanziari internazionali sono da tempo una presenza consueta nella vita pubblica italiana, con i media che rilanciano ogni giorno gli andamenti degli indici di Borsa di Paesi di ogni parte del mondo. È una presenza non formale, perché sono richiamati come la ragione dell’ineludibilità di scelte socio-economiche e istituzionali, soprattutto quando non hanno il consenso popolare. “Ce lo chiedono i mercati internazionali” è la spiegazione che accompagna le scelte impopolari, quelle che vanno fatte anche se fanno male e che sanciscono che la finanza internazionale è in grado di condizionare la vita collettiva e di ciascun cittadino imponendo opzioni che probabilmente non riuscirebbero ad affermarsi tramite i canali del consenso democratico.
È qui il cuore della questione: cosa accade alla sovranità democratica, quella del popolo che si esprime tramite i meccanismi della democrazia rappresentativa, se poi scelte che determinano la vita delle persone sono praticamente imposte da soggetti imperscrutabili, lontani, non imputabili, dai protagonisti opachi della finanza internazionale? Che cosa succede della sovranità popolare che si esprime tramite il meccanismo della competizione elettorale tra partiti, uomini politici, opinioni, idee, progetti e che può eventualmente, tramite il voto, sanzionare chi ha gestito il potere?
È un tema non più per pochi iniziati, magari studiosi di scienze politiche o cultori delle istituzioni, ma un nodo decisivo della vita collettiva, perché in grado di condizionare la qualità del vivere insieme e di incidere sulle opportunità di sviluppo del nostro Paese. Ed è un tema non solo italiano, perché coinvolge con diversa intensità tutti i principali Paesi a economia di mercato. Se un tempo riguardava soprattutto i Paesi a più basso livello di sviluppo, quelli a economia e Stato nazionale fragili, oggi la contraddizione è risalita nella catena dello sviluppo fino a coinvolgere pesantemente i Paesi di prima fila.
Protagonisti dell’economia mondiale, in grado di parlare da pari a pari e, molto spesso, da posizioni di forza con gli Stati nazionali, sono gli operatori globali che, a caccia dei rendimenti migliori, sono in grado di spostare rapidamente enormi masse di capitali da un mercato all’altro, grazie alla libera circolazione finanziaria e all’utilizzo delle nuove tecnologie Ict. L’esistenza di tali operatori finanziari globali spiega perché oggi anche Stati nazionali con storia antica e potenza economica consolidata non possono non considerare nelle loro scelte di politica economica il punto di vista dei mercati internazionali, perché questi ultimi, con le loro reazioni, sono in grado di infliggere danni che fanno male.
Lo slittamento della sovranità verso l’alto è stato però dettato, oltre che dal già citato crescente peso di soggetti che si muovono agevolmente tra i mercati dei vari Paesi come fossero un continuum senza altra logica che quella della massimizzazione dei rendimenti, dal trasferimento di quote di sovranità dagli Stati nazionali verso organismi sovranazionali, che nel caso dei Paesi europei e del nostro ha significato soprattutto il trasferimento di poteri alla Unione europea. Una scelta più o meno volontaria della politica nazionale di alienare parte della sovranità a favore di istituzioni multistatuali sovranazionali provando così a giocare da una posizione più forte sull’arena globale: è così che gli Stati nazionali hanno perso quote di potere e con loro le ha perse l’insieme dei soggetti che fanno parte della nazione e che tramite i meccanismi della democrazia rappresentativa riuscivano comunque a essere la fonte della sovranità e a condizionare, magari parzialmente, scelte decisive della vita collettiva.
Oggi si deve registrare la fine della sovranità dello Stato e con essa della politica. Il rischio maggiore è una società eterodiretta che riesce sempre meno ad avere identità, scoprendosi fragile, impotente, oscillante tra mugugni, adattamenti e antagonismi.
La vulnerabilità finanziaria dell’Italia
Tutti gli Stati nazionali, anche i più forti, sono condizionati nelle loro scelte dai mercati finanziari internazionali e dai soggetti che ne sono protagonisti, come i fondi sovrani, i fondi pensione, le grandi banche d’affari e le agenzie di rating: è ormai più o meno noto il profilo tipologico dei principali protagonisti della finanza mondiale che condizionano la vita degli Stati, troppo spesso è invece ignoto il profilo proprietario e la trama di interessi che racchiudono.
In questo contesto di deregolamentazione dei mercati internazionali, c’è una diversa vulnerabilità degli Stati al condizionamento dei protagonisti della finanza, e ciò rinvia al fattore chiave della vulnerabilità: il bisogno di capitali. L’Italia è tra i Paesi più esposti alla pressione dei mercati internazionali perché ha tanto bisogno di capitali, a seguito di un colossale debito cumulatosi nel lungo periodo in una spirale la cui ricostruzione sul piano contabile riflette una storia sociale fatta del progressivo e prolungato trasferimento di quote di sovranità in cambio di una certa pace sociale interna. Infatti, il finanziamento della spesa pubblica è avvenuto a lungo tramite l’indebitamento, ed è questa l’origine reale dell’attuale vulnerabilità italiana alla volontà dei mercati internazionali.
Ogni rinnovo di stock del debito è l’occasione perché la volontà dei mercati si abbatta sul nostro Paese come una scure, fatta di interessi più alti e conseguente rialzo del servizio del debito. La volontà dei mercati si impone fisicamente tramite la quota di Prodotto interno lordo che deve essere destinata a coprire il debito. Perché siamo così indebitati e, quindi, così vulnerabili, potenzialmente fragili di fronte alla volontà dei mercati internazionali? Impressiva è la spiegazione che viene dai numeri: poco più di cinquant’anni fa, nel 1970, il debito pubblico italiano era in valori correnti di 13 miliardi di euro, pari a circa un terzo del Pil; da allora ha preso una rincorsa inarrestabile verso l’alto, aumentando in termini di quota del Pil di oltre 20 punti percentuali nel decennio 1970-1980, di quasi 40 punti nel decennio 1980-1990, di circa 14 punti nel periodo 1990-2000, di 10 punti tra il 2000 e il 2010.
I tassi di crescita annui nominali per decennio sono stati dal 1970 a oggi sempre superiori a quelli del Pil: 5,1 punti di differenza percentuale negli anni ‘70, oltre 6 punti percentuali negli anni ‘80, 1,4 punti negli anni ‘90 e quasi 1 punto negli anni 2000.
Negli ultimi cinquant’anni nel nostro Paese ogni anno l’aumento medio del debito è stato sempre superiore all’aumento medio del Prodotto interno lordo; è così che anno dopo anno si è cumulato lo stock del debito che è partito da 242 euro pro-capite nel 1970 (pari a 4.800 euro pro-capite a prezzi 2010) e in cinque decenni è diventato l’attuale montagna di oltre 31mila euro per italiano. Nel 2011 per ogni italiano si è registrata una quantità di Pil pari a 26.050 euro, inferiore al debito pro-capite. La formazione del debito nel tempo, la sua persistente crescita pure nei mutamenti politico-istituzionali degli ultimi cinquant’anni, consentono di dire che non è solo il portato di scelte politiche e di politica economica, ma più ancora l’esito di una scelta socialmente condivisa di contenere la conflittualità e, di fatto, di comprare a debito la pax sociale.
Ma la politica poteva fare di più
Prigioniera di un debito sovrano colossale, alla perenne ricerca di creditori, l’Italia è oggi costretta a misurarsi direttamente con il nuovo potere della finanza. Certo, la nuova geografia dei poteri reali, con il lento slittamento verso l’alto della sovranità, è un fenomeno recente per non generare a livello sociale confusione, ambiguità, diversità profonde di vedute, oltre che attribuzioni improprie di responsabilità.
In ogni caso, richiesti di indicare chi ha potere reale nel e sul nostro Paese in questa fase, quasi il 57% degli italiani indica il governo nazionale, il 22,5% l’Unione europea, quasi il 22% i mercati finanziari internazionali, il 20% le Regioni e quasi il 13% gli organismi internazionali economici e finanziari – come, ad esempio, il Fondo monetario internazionale (tab. 1). Non può non colpire la dimensione percentuale del richiamo al potere
reale esercitato sul nostro Paese da soggetti diversi dal governo, in particolare dai mercati finanziari e dagli organismi sovranazionali; sono convinzioni che sino a non molto tempo fa erano presumibilmente appannaggio di ristrettissime cerchie.
La geografia percepita dei poteri reali varia molto tra i gruppi sociali; le persone con più basso titolo di studio sono molto più convinte di un potere reale nelle mani del governo, anche se poi affiancato da quello dei mercati finanziari internazionali e degli organismi sovranazionali; anche tra i laureati c’è l’idea che il governo disponga di poteri reali, ma sono molto più alte le percentuali di intervistati che attribuiscono poteri reali sull’Italia a soggetti che operano nello scenario internazionale (dai mercati finanziari, alla Ue, agli organismi sovranazionali). Il persistente potere attribuito al governo, pur nella constatazione che una quota molto alta di cittadini ritiene che la sovranità sia altrove, fuori dai confini nazionali, probabilmente rinvia al fatto che nel nostro Paese la sudditanza ai circuiti finanziari internazionali convive con la convinzione profonda che le istituzioni nazionali qualcosa in più potrebbero e, soprattutto, avrebbero potuto fare.
È questo un aspetto che differenzia l’Italia rispetto ad altri Paesi preda di crisi e sovranità in fuga, dove la convinzione che governi e Parlamenti nazionali abbiano inutilizzato o male utilizzato poteri reali è stata fatta propria e rilanciata dalle retoriche e dalle pratiche più estremiste, che l’hanno incapsulata in coalizioni socio-politiche che puntano il dito contro le responsabilità delle élites, da quelle finanziarie a quelle europeiste, a quelle globali.
Come rilevato, ad oggi l’Italia fa parzialmente eccezione rispetto a queste dinamiche, perché nel nostro Paese in questa fase vince una retorica antipartitica piuttosto che antiélitaria, tanto più che l’élite dei tecnici è ancora beneficiaria di una luna di miele che la vede come salvatrice rispetto all’inconcludenza della politica pregressa.
In pratica, gli italiani sono convinti che a livello nazionale le istituzioni hanno giocato male la loro partita: di qui l’attuale espropriazione di sovranità. In questa ottica, la sudditanza ai poteri internazionali viene percepita come una resa ormai necessaria, che però ci è stata imposta anche dagli errori del passato.
Si può dire, in sintesi, che di fronte a una sovranità che vola verso l’alto, lontana dai luoghi classici di formazione della decisione fondata sul consenso costruito tramite gli strumenti della democrazia rappresentativa, l’Italia si differenzia da altri Paesi perché riversa sulla politica, e più ancora sul personale politico dei partiti, la delusione per non avere saputo negoziare tra le dinamiche finanziarie globali che generano sudditanza e la vita quotidiana dei cittadini stessi.
Non è un caso quindi che da un’indagine del Censis sulle opinioni dei cittadini emerga che, in questa fase difficile e particolare, ai vertici della cosa pubblica ai vari livelli (dal governo alle Regioni, alle Province, ai Comuni) l’Italia abbia bisogno (tab. 2):
– per oltre il 55% degli intervistati soprattutto di persone competenti, non importa se elette dal popolo, purché facciano, se necessario, anche scelte impopolari (ne sono più convinti i laureati);
– per il restante quasi 45% invece di persone elette dal popolo, perché devono rispondere al momento delle elezioni di quello che fanno (vogliono di più persone elette dal popolo gli intervistati con media scolarità e i residenti al nord-est). Spicca il dato relativo ai giovani, che molto meno delle altre classi di età si abbandonano alla magia della competenza e dei tecnici; è infatti quasi il 54% degli intervistati con età compresa tra 18 e 29 anni a dichiarare che in questa fase è comunque importante avere ai vertici delle istituzioni a ogni livello persone elette dal popolo che possano rispondere di quello che fanno.
In Italia, quindi, la percezione sociale della sovranità perduta è presente in modo molto difforme, mentre fa invece il pieno di consensi l’irritazione verso la politica, e più precisamente verso i partiti. È un atteggiamento che ha radici salde nel quotidiano, non solo nella indignazione moralistica e di opinione verso eventuali casi di corruzione e forme di malgoverno, piuttosto nel deteriorato rapporto tra cittadini e imprese da un lato, burocrazia e Pubblica amministrazione dall’altro, vissuta come espressione più patologica dell’agire della nostra politica.
La sovranità perduta del cittadino
L’erosione della sovranità del popolo non è legata solo alla recente evaporazione verso l’alto della sovranità, con il trasferimento di potere reale verso i mercati o gli organismi sovranazionali, perché essa si innesta in una più antica idea di svuotamento dei poteri decisionali dai luoghi della rappresentanza; la rottura del nesso rappresentanza-decisione è un tema antico, imposto dalla lunga deriva di verticalizzazione del potere fino alla personalizzazione dello stesso.
Il senso di impotenza, la percezione di non contare nulla in politica e nei processi decisionali, è profondamente radicato nella società italiana e alimenta scetticismi, estraneità, la convinzione che nulla può essere fatto e che soprattutto le persone nulla contano e nulla possono (tab. 3).
Gli italiani in questa convinzione sono secondi solo ai greci; infatti, il 75% degli italiani ritiene che la propria voce non conta nulla in Europa, e solo tra i greci (84%) si registra una quota maggiore di persone che condividono tale idea; il valore è comunque elevato anche tra gli spagnoli, mentre la media Ue è pari a 61%; sono invece convinti del contrario gli olandesi e i tedeschi, tra i quali le percentuali di chi crede di non contare in Europa si riducono rispettivamente al 43% e al 44%. Il senso di impotenza, di non contare nulla, è relativo non solo alle istituzioni europee, ma tocca anche il meccanismo politico-istituzionale nazionale; infatti, il 77% degli italiani ritiene di non avere voce neppure nel proprio Paese, così come l’84% dei greci e più della metà degli spagnoli (52%). Al contrario degli olandesi e dei tedeschi, i quali sono convinti che la propria voce conti nel proprio Paese rispettivamente l’81% e il 70%.
La verità è che sotto il profilo della sovranità del popolo, intesa come reale capacità di incidere sui processi decisionali, la Ue non ha in nulla migliorato le cose visto che, secondo i cittadini italiani, la loro voce nulla conta in Italia e nulla conta in Europa.
La convinzione che si vive in una fase di “zero sovranità” per i cittadini si completa con la percezione forte che ci sia un gap molto ampio tra le opinioni dei cittadini e le decisioni prese dai leader politici; lo pensa il 91% degli italiani e ancora una volta è la Grecia (96%) il Paese dove si registrano le quote più alte di intervistati che condividono questa opinione; è alta la quota anche tra gli spagnoli (93%), mentre il dato medio europeo è molto vicino a quello italiano.
Relativamente al senso di impotenza ed estraneità ai processi decisionali politico-istituzionali nazionali ed europei, l’Italia è molto simile alla Spagna e alla Grecia, con un senso di frustrazione evidente per una sovranità che è collocata in un altrove lontano, quasi esoterico per i cittadini. Si può dire che per ora, più che l’evaporazione della sovranità dello Stato, provoca mugugni la più antica liquefazione della sovranità del cittadino.