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Verso il Movimento 12 stelle

La crisi di sovranità degli Stati ha conosciuto in Italia una declinazione ancora più forte, in questi anni, a causa di un particolare atteggiamento che la sua politica e il suo dibattito pubblico hanno conosciuto fin dagli anni Novanta. Una crisi politica, prima che economica, che ci ha condotto fin qui, con il pericolo di fallire, in tutti i sensi, ogni giorno. Perché se in precedenza si era affermata una devastante irresponsabilità nei confronti di una spesa pubblica fuori controllo e di un debito che si andava accumulando senza che nessuno vi prestasse alcuna attenzione, in questi ultimi vent’anni ha prevalso un atteggiamento di sufficienza verso tutto ciò che avveniva al di fuori dei nostri confini o sulla soglia di un mondo che, sotto numerosi profili, premeva su di noi, sulla nostra economia e sulle nostre stesse abitudini, in campo sociale e culturale.
 
Il combinato disposto dei due fenomeni ha prodotto la situazione nella quale ci troviamo, senza averci condotto né a un vero ripensamento delle nostre strategie – che si sono letteralmente rimpicciolite con il passare del tempo – né a una assunzione di responsabilità nei confronti del cambiamento di modello di sviluppo che si impone da tempo. La proposta è perciò semplice e insieme rivoluzionaria, pensando al nostro Paese e alla sua politica soprattutto: aboliamo il provincialismo, e quello sguardo involuto che ci fa vedere le cose da un punto di vista marginale, com’è accaduto negli anni della chiusura, sia verso l’Europa, sia verso il Mediterraneo.
 
Il Movimento 12 Stelle – quelle della bandiera europea – è l’unico che ci vuole davvero, un movimento che si rivolga all’Europa con fiducia e con una precisa missione politica: quella di dare finalmente senso politico alla vicenda europea e, quindi, alle vicende politiche dei singoli Stati che ne fanno parte. Le responsabilità, sia ben chiaro, sono tutte delle forze politiche italiane: se vogliono recuperare quella credibilità perduta, devono necessariamente trasformarsi in soggetti politici europei, capaci di interpretare immediatamente una sfida politica che superi i confini nazionali. Contribuire al dibattito pubblico europeo significa dichiararsi indisponibili a un dibattito che si limiti alla vicenda politica italiana e dei singoli Stati: soltanto così i “latini” potranno contrastare le tendenze “prussiane”. Con più Europa, non con un atteggiamento di rifiuto delle sue istituzioni.
 
Soltanto attraversando questa frontiera non solo metaforica, la politica darà senso a se stessa e alle scelte che riguardano il nostro Paese. Soltanto con un cambiamento di mentalità e una conseguente trasformazione delle istituzioni politiche europee – che paiono non a caso impalpabili e lontane soprattutto se osservate dal punto di vista italiano – si potrà restituire fondamento alle battaglie politiche nazionali. Se si pensa che l’unico tema europeo che sia entrato nel dibattito politico di casa nostra – prima della recente crisi economica, che ci ha inevitabilmente proiettati a Bruxelles più che a Roma – sono state le quote latte, si capisce che cosa si intende dire quando si parla di provincialismo e di un limite determinato in primo luogo dalla limitatezza del nostro sguardo.
 
E invece si può immaginare un dibattito, promosso e tradotto per così dire in lingua italiana, che faccia immediatamente segno a campagne europee, a scelte che investono tutto il continente e che possono dare all’Italia quel respiro che le è mancato, negli ultimi anni non per caso, ma sulla base di un’opzione politica ben precisa. All’insegna di una partecipazione che porti tutti quanti a rivolgersi a quelle stelle, come per altro previsto dall’art. 11 del Trattato di Lisbona, che chiama i cittadini europei direttamente in causa, perché si esprimano (e possano prima di tutto farlo) sulle grandi scelte strategiche delle istituzioni che tutti li riunisce. Alcuni capitoli della politica italiana, a cominciare dalle scelte economiche, ma non solo (si pensi alla cittadinanza, ai diritti, alla questione migratoria, alle scelte e alle spese che riguardano la difesa), vanno immediatamente collocate a quel livello, al di sotto del quale, semplicemente, non vi è più possibilità per una politica degna di questo nome, capace di inserirsi nel processo della globalizzazione, di interpretarlo e di prenderne le misure.
 
Alla classe politica deve arrivare un messaggio che è ben più di un ultimatum: o abbandonerà il passo involuto e clientelare (e quando non è clientelare è certamente ombelicale e tutto rivolto verso il basso), e penserà se stessa come grande interprete e organizzatrice del consenso in una grande rete di relazioni, piuttosto che nella difesa della piccola patria del territorio e dei suoi feudi, o non sarà. Come non lo è stata, salvo rarissime eccezioni che sono state, non a caso, perfettamente incomprese e strumentalizzate. Sconfitte, insomma, da una retorica tutta contraria.
 
Soltanto se gli attori politici italiani faranno sentire europei i propri aderenti e concittadini, potrà essere una politica del mondo, capace di assorbire i processi senza inutili chiusure e di sostenere quel livello di benessere che è messo profondamente in discussione. È questo il cerchio di fuoco in cui saltare, per scoprire nuovi orizzonti e nuove motivazioni, sapendo che è già molto tardi, che le occasioni perse non solo non si possono rimpiangere, ma che sono difficili da recuperare, se non con uno sforzo titanico, che la politica deve saper guidare. L’Italia ritroverà una sua dimensione soltanto rivolgendo il proprio sguardo non alla penisola ma a quello che le sta intorno, in un rovesciamento della celebre immagine petrarchesca. Conservando l’idea che si debba guardare da un punto di vista più alto, muovendo dal basso e dalla condivisione dei nostri destini con chi detiene la sovranità che andiamo cercando. Che sono i cittadini italiani. Volevo dire, europei.
 
Giuseppe Civati
Consigliere regionale della Lombardia e membro della direzione nazionale del Pd


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