Ho conosciuto Clara Sereni tanti anni fa, durante le Giornate del cinema italiano in campo Santa Margherita a Venezia, lei lavorava per l’associazione degli autori e dei registi in quei primi anni Settanta e intanto scriveva risalendo lungo il filo della sua memoria per darsi ragione di tutto quello che, nonostante le lotte, l’impegno, la militanza, continuava a non funzionare, anzi ad andare storto, sempre più storto.
Clara veniva da una famiglia dell’aristocrazia comunista che aveva patito decenni terribili di clandestinità ed emarginazione e non aveva mai ceduto alla malinconia o al dubbio, anzi si era battuta, ostinata, giorno dopo giorno, per un ideale che intanto rivelava la sua fragilità e la sua contraddittorietà. Poi è toccato a lei di affrontare il mistero del male e del dolore in una dimensione esemplarmente privata, che però ogni volta nei suoi gesti e nelle sue parole pretendeva di coinvolgere gli altri per resistere insieme.
Clara, alla conclusione di un’esperienza di vicesindaco a Perugia, si descrisse come “ultimista”, nel senso che lei aveva scelto di stare dalla parte degli “ultimi”, di condividere le loro umiliazioni e la loro sofferenza, di accettare la sua condizione di ebrea, di donna, di esperta di handicap, come il punto di partenza di un’avventura esistenziale e politica che diventava una sfida sempre nuova ai pregiudizi, alle ottusità, alle ingiustizie, che nel mondo non finiscono mai.
Ora, capovolgendo la prospettiva, Clara racconta la vita guardandola dalla fine, quando cioè le attese, i progetti, persino le utopie, hanno sempre meno senso e invece è il momento dei bilanci, e ancora una volta la sua storia personale è solo uno spunto, che subito si mescola con le storie di una generazione, di un gruppo, di una comunità.
Una storia chiusa (Rizzoli, pp. 352, euro 19) racconta le memorie di un’Italia fragile e invecchiata male, povera di entusiasmi, così come viene conservata in una dimora per anziani da donne e uomini in attesa senz’ansia, anzi soddisfatti che alla definitiva chiusura manchi ancora un po’.
La voce narrante, quella di un magistrato sotto copertura, obbligato a reinventarsi un’identità e una vita per non darla vinta ai persecutori, è accompagnata e in qualche caso sopraffatta da racconti, pensieri, giudizi degli altri ospiti e di un assistente sociale.
Per un verso questi vecchi disegnano la trama di una coabitazione che serve a difendersi da un mondo estraneo e lontano, «spaventoso e incontrollabile», nel quale per loro non c’è ruolo, né ci sono autentici affetti, tanto che le volte in cui quello imprevedibilmente si affaccia tra loro è causa di scompigli e turbamenti, ma per l’altro quello stesso mondo è in ogni istante presente con nostalgia, anzi nei modi in cui è stato condiziona comportamenti e rapporti, incancellabile anche nelle ferite che riapre e nelle discordie che agita.
Il passato come è stato vissuto e come ancora è presente evoca un’Italia segnata da una sequenza infinita di stragi e violenze che vengono celebrate dai laici ceri che Olga accende fedele, proprio come una sopravvissuta. Così tutti gli altri, anzi soprattutto le altre, perché gli uomini hanno la vita più breve, ognuno mescolando l’orgoglio di quello che ha fatto e la pena di una vita che intanto si è tremendamente «ristretta».
“Questo presente in formato ridotto”, diventato angusto nello stesso spazio che a ognuno concede, alimenta la paura di un futuro troppo corto per riaccendere la speranza, ma anche una serenità ragionevole, persino una noia quasi rassicurante: in fondo non c’è più da combattere, la storia sta per chiudersi e nella casa, che è solo per loro, le passioni resistono, ma in sordina, come in un limbo, senza premi né condanne. Certo la vita è stata buttata, ma al tempo stesso si è consumata per uno scopo nel quale si è creduto.
Clara, anche tanti anni dopo, non è impulsiva ma radicale, e così riesce a svelarci della vita quel che ha ancora importanza, tanto che lei ha accettato a sessantaquattro anni di uscire dal mondo convulso per “ritrovarsi” insieme a chi conosceva la strada per averla almeno in parte percorsa.