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Signori, non crocefiggiamo Fiorito (meglio della Minetti)

I torbidi che hanno portato rapidamente – nonostante le accuse, le dichiarazioni e le smentite – alle dimissioni del presidente Polverini dal vertice della regione Lazio apparentemente si presentano come l’ennesimo caso di corruzione nostrana. Ormai in Italia, d’altronde, sembra che non avvenga altro che questo. Vale a dire l’elezione di una giunta; il fallimento della sua attività amministrativa; l’emergere della corruzione; le dimissioni anticipate che precedono e accompagnano le inchieste della magistratura e la scoperta dei reati. Le condanne, invece, sono rare, com’è noto.
 
Non sembra, pertanto, che vi sia nulla di veramente originale nella presente vicenda Fiorito. Anzi, probabilmente qui siamo davanti alla faccia pubblica di quanto la Margherita e la Lega avevano praticato privatamente, anche se non meno colpevolmente, con la gestione dei propri fondi. In questo caso è stata molto più diretta la responsabilità comune nell’amministrazione ad uso privato dei 14 milioni di euro di dividendi che il consiglio regionale si è destinato; ma il criterio comportamentale è lo stesso. L’importante è arricchirsi e mangiarsi lo Stato.
 
Ovviamente, adesso è molto facile scaricare sui protagonisti e anche sulla correità del presidente la colpevolezza di un malaffare che impietosamente si pratica in una regione sull’orlo del fallimento finanziario.
Invece qui una particolarità c’è eccome, a ben vedere. Fiorito non è un nominato. Per capirsi non è la Minetti, il cui scultorio profilo è chiamato a giustificare la bellezza del creato e la sua presenza in lista. No. Non abbiamo neanche la semplice funzionalità di un ruolo scomodo ma necessario richiesto da un movimento politico che si fa beffe della democrazia affidando il lavoro sporco ad uno squallido personaggio di borgata. No. Fiorito è l’essenza stessa della democrazia. Un uomo il cui profilo Max Weber aveva già tracciato nitidamente nella celebre conferenza “La politica come professione”, chiamandolo con l’appellativo di Boss, ossia colui che fa di mestiere il “procacciatore di voti”.
 
Abbiamo davanti la carriera di un notabile perfetto nel suo genere, il quale solo in questo modo è salito con gli scandali alla notorietà. Altrimenti sarebbe stato felicemente contento di restare nell’ombra, rimanendo una scialba sagoma del sistema. Un signore che partito da Anagni è arrivato, di voto in voto, fino ad essere il big nella distribuzione dei fondi speciali dei consiglieri regionali. Un boss per l’appunto di stampo democratico. Più democratico della democrazia, se mi si passa l’espressione.
Tutti gridano: “Che schifo!”. Bene. Ci mancherebbe altro che ci privassimo del gusto di veder cadere un altro potente dal piedistallo. Forse dovremmo, però, applicare questo giudizio severo, innanzitutto, a noi elettori che nella fattispecie abbiamo la sovranità e non solo abbiamo determinato ma perfino creato tale obbrobrio, essendo pertanto pienamente complici dell’accaduto.
 
Altro che moralismo. La democrazia funziona se i cittadini sono imputabili quando votano. Se non lo sono, ecco il risultato spettacolare. Gli elettori affidabili studiano i candidati e scelgono quelli che non alimentano esclusivamente l’orticello che conviene a ciascuno, ma che adempiono i compiti che la funzione che sono chiamati a svolgere esige.
Mi dispiace dirlo, ma l’amministrazione Polverini ci ha messo innanzi ad un nuovo aspetto di una querelle assai antica, precedente perfino la fine della partitocrazia novecentesca. Un problema che è il cuore vero della nostra crisi di valori, per usare l’espressione di Bagnasco.
 
Quando una comunità vota esprime solennemente la democrazia diretta stabilendo la sua volontaria partecipazione. Il resto anche se funziona non è democrazia. Ma la sovranità popolare, tanto bella, ci rende anche responsabili collettivamente di coloro che si eleggono, tanto quanto lo era la monarchia che nominava i senatori del Regno. E se ad esprimerli sono le liste, l’ultima parola sta a chi le liste le vota, non a chi le liste la fa. Punto.
Togliamoci dunque dalla bocca il sarcasmo e la critica un po’ ipocrita e tanto superficiale che riempie le pagine dei giornali e le chiacchiere dei bar. Rimbocchiamoci le mani e decidiamo di fare politica personalmente, o, almeno, di scegliere i politici con senso morale. Anche se è faticoso farlo, è assolutamente indispensabile. In caso contrario, conviene restare in silenzio, come fanno i complici che è andata bene.
 
L’unico, in realtà, che sta facendo questo oggi è unicamente Renzi. Se non ci piace il sindaco di Firenze, e può non piacere, dobbiamo sfidarlo nella pubblica Agorà. Oppure, se preferiamo, possiamo sempre eleggere un nuovo Boss che tuteli il nostro orticello, garantendoci delle buone percentuali. Ben consapevoli, però, che alla fine sarà un volgare acchiappa voti, emissario spregiudicato del nostro consenso. Balordo esattamente come i suoi elettori.
 
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