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Chiudere l’Erasmus significa scommettere sulla fine dell’euro

C´era più Europa quando non c´era l´Euro. Quando andare in vacanza, per migliaia di studenti significava bighellonare tra le capitali del Vecchio continente, zaino in spalla, a imparare, conoscere e divertirsi, in ordine rigorosamente opposto. Dell´Inter rail, il biglietto che permetteva per poche lire (marchi, dracme e franchi) ai minori di 26 anni di viaggiare senza limiti dall´Irlanda al Mar Nero è rimasta poca cosa, rimpiazzato da voli low cost, per lo più verso località che offrono relax e nient´altro. Ora arriva la notizia che è a rischio anche il progetto Erasmus e il sospetto che lo spirito europeo sia spirato sotto i colpi della crisi dei debiti sovrani, diventa una certezza. Da qualche giorno un drappello di eurodeputati sta lanciando l´allarme: la Commissione Europa non ha i soldi per liquidare le borse di studio del 2012. E il programma che in 25 anni ha permesso a tre milioni di universitari (studenti e staff) di studiare o formarsi professionalmente in un ateneo o in un´azienda oltre confine rischia di chiudere i battenti.
 
La colpa ufficialmente è della crisi, l´Erasmus sarebbe vittima, insieme ad altri programmi, dei tagli al fondo sociale europeo. Gli stati membri non versano il dovuto. Ma è difficile pensare che si tratti solo di soldi. Certo, l´Erasmus è cresciuto oltre ogni aspettativa. Solo considerando la mobilità degli universitari, si è passati dea 3.244 del 1987 ai 190 mila del 2011 (in Italia dai 220 pionieri a più di 19 mila all´anno). C´è il sospetto – sicuramente legittimo – che qualche stato membro abbia esagerato con le richieste di rimborso. Forse dare la mini borsa di studio a tutti (in media 230 euro al mese) non è stata una scelta giusta. C´è da considerare il fatto che il programma sta seguendo un´ evoluzione anticiclica: nonostante la crisi il numero di persone che partecipano continua a crescere. Segno che lo spirito europeo, tra i giovani, è vivo, ma anche la garanzia di un aumento delle spese oltre le previsioni.
 
Ma la rinuncia al progetto nato per creare la prima generazione di europei non può non essere letta come il segno che l´integrazione del Vecchio continente per molti stati membri sia nella migliore delle ipotesi un´utopia da abbandonare, in quella peggiore, un evento da evitare. A credere nel progetto Erasmus sono soprattutto i paesi più piccoli, quelli fuori dall´Euro e, per quanto riguarda l´area della moneta unica, quelli periferici. I principali contributori, rispetto al Pil, sono il Lussemburgo, la Lituania, la Spagna, l´Islanda e il Portogallo. Il primo Paese a spedire studenti oltre confine è la Spagna, seguita dalla Francia, segue la Germania, due paesi che hanno una popolazione di studenti molto superiore agli altri Paesi europei. L´Italia è al quarto posto seguita dalla Polonia. Credono poco nell´Erasms gli euroscettici, come dimostrano i dati del Regno Unito che ospita il doppio degli studenti che spedisce in nel Contiente. La Germania si piazza bene come esportatrice di studenti, prima in assoluto nella mobilità dello Staff, non come contributore.
 
E´ opinione diffusa che uno dei limiti della moneta unica sia rappresentato dalla difficile mobilità degli europei. Lingue troppo diverse, standard educativi lontanissimi e quindi un mercati (in primis quello del lavoro, ma non solo) ingessati e poco comunicanti. Chiudere i rubinetti all´Erasmus significa scommettere sulla rinuncia definitiva, non a un´integrazione politica che forse è veramente un´utopia, ma sulla fine di una moneta che avrebbe bisogno di un vero mercato unico.
 
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@AnSignorini

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