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Monti vuol dire fiducia (e credibilità)

Che di troppo rigore si possa morire è un mantra che viene ormai ripetuto senza sosta dai leader dei due principali partiti, Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi.
Dichiarazioni che, pronunciate all’unisono, tendono a porre nella mente del proprio elettorato un argine tra il sostegno emergenziale e obbligato al governo tecnico e la nuova fase che entrambe le forze politiche vorrebbero aprire con le elezioni del 2013.
Pd e Pdl, nonostante ricette differenti, sono uniti nel considerare i provvedimenti del governo Monti come la principale componente recessiva per la fragile economia italiana. Ma è davvero così?
 
Lo sforzo e la risolutezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suggerire la necessità di porre la parola fine all’esperienza del berlusconismo, almeno così come l’avevamo conosciuto, hanno fatto il paio con l’acquisita consapevolezza da parte del popolo italiano – probabilmente non da una certa classe politica travolta dagli scandali – che ci si avviava a una stagione di grandi sacrifici, ma anche di nuove opportunità.
Lo stesso Monti, nelle scorse settimane, ha ammesso di aver dovuto prescrivere al Paese una terapia d’urto che – con l’adesione al Fiscal Compact e la conseguente introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione – manifesterà i suoi primi sostanziali effetti benefici, iniziati già a tradursi con il calo di svariati punti di spread, non prima del prossimo anno.
 
Al netto di una nuova legge elettorale che potrebbe rendere obbligata la scelta di un secondo “governissimo”, si fa sempre più strada, in ambo gli schieramenti, l’ipotesi che l’esperienza di governo e di risanamento iniziata dal Professore debba consolidarsi per divenire il faro degli anni di transizione che verranno.
La crisi economico-finanziaria globale e le conseguenti tensioni sociali hanno segnato in quasi tutti i Paesi un vuoto di rappresentanza, favorendo la nascita di nuovi assetti e di un rinnovamento dell’offerta politica, che in Italia si tradurranno con la conclusione, più o meno rapida, della II Repubblica.
 
Un futuro sempre più vicino, che l’area moderata ha scelto di incarnare dando voce e corpo al progetto di una grande lista civica di responsabilità nazionale che sarebbe appoggiata con candidature o semplici benedizioni da ministri dell’attuale governo come Corrado Passera, montiani della prima ora come Pierferdinando Casini, e risorse della società civile e del tessuto imprenditoriale come Luca Cordero di Montezemolo.
È fuor di dubbio che i prossimi mesi, caratterizzati da momenti delicatissimi come la ormai certa richiesta di aiuti da parte della Spagna – le cui condizioni saranno probabilmente le stesse che negozierà il Belpaese – e le contese elettorali italiana e tedesca, saranno cruciali per definire la percezione che i mercati avranno del futuro della moneta unica, della tenuta sociale ed economica del nostro sistema-paese e di come la classe dirigente potrà reagire davanti alla necessità di adottare nuovi provvedimenti impopolari per i cittadini e per lo stesso ceto politico.
 
In un quadro così delicato e potenzialmente esplosivo, un uomo come Mario Monti, dal solido prestigio internazionale e dalla provata moderazione, è un calmiere che può da solo rappresentare la migliore garanzia che l’Italia può spendere per attenuare la diffidenza dei mercati.
Per il momento, naturalmente, nessun partito a vocazione maggioritaria potrà mettere sul tavolo nel dibattito pubblico un’ipotesi di questo tipo, che avrebbe il solo effetto immediato di deludere le istanze di maggiore partecipazione dei cittadini nei processi che regolano la vita pubblica.
Nonostante molti sondaggi indichino la fiducia nei confronti di Monti e del suo governo molto al di sopra di quella nei partiti e nei possibili candidati al governo del Paese, il premier ha già fatto sapere saggiamente che una possibile prosecuzione del suo impegno sarà subordinata alla necessità che l’Italia avrà del suo contributo, né sarebbe auspicabile altrimenti; non vi saranno, né vi sono percorsi già definiti: ogni cittadino dovrà esercitare – nei limiti consentiti da una legge elettorale tutt’altro che perfetta – il diritto-dovere che uno stato di diritto gli concede, ovvero quello di scegliere i propri rappresentanti.
 
I partiti tradizionali, dal canto loro, dovranno essere in grado di superare a pieni voti lo stress-test delle prossime elezioni, che saranno il termometro della loro vera salute. Davanti a risultati poco incoraggianti per la stabilità della futura esperienza di governo, potrebbero essi stessi riflettere sull’opportunità di un patto che metta da parte contrapposizioni ideologiche in cambio di riforme utili al Paese.
Il “servizio effettivo permanente” al quale il senatore a vita potrebbe essere chiamato rimane una delle ipotesi più probabili e credibili che la nazione potrà mettere in campo per abbattere – con un progetto a lungo termine fatto di interventi strutturali – le zavorre che frenano lo sviluppo, modernizzando il Paese e affrontando i nuovi cambiamenti che il confronto con i benchmark occidentali ci impone.
 
In un contesto che vede l’intero Vecchio Continente in difficoltà e denota prime crepe in Francia e persino nella “locomotiva” tedesca, l’Italia potrà rappresentare un vero e proprio laboratorio politico e dettare parte dell’agenda comunitaria, recitando così quel ruolo da protagonista che la Storia europea ci ha finora assegnato.
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